Fran Levstik (1831-1887) è un autore che ricopre un’importanza fondamentale nella storia della letteratura slovena, di fatto ne gettò le basi, riformò lo stile e la lingua. Fu un poeta e saggista vicino ai circoli liberali, da cui per altro rimase più volte deluso ed è ricordato soprattutto per il racconto Martin Krpan, entrato a pieno titolo tra i classici sloveni, pubblicato originariamente nel 1858 sulla rivista di narrativa Slovenski glasnik. Questa bella favola ha avuto successo anche fuori dalla sua terra natale ed è stata tradotta in svariate lingue, nel 1992 ne è uscita addirittura una versione in cimbro scritta da Igino Rebeschini, edita dall’Istituto di Cultura Cimbra di Roana (Vicenza).
Martin Krpan: la trama
Martin Krpan è un personaggio immaginario, che l’autore – secondo i canoni della sensibilità romantica allora in voga – disse di aver recuperato dal folklore della Carniola:
“Močilar a volte si metteva a raccontarmi dei tempi che furono, di come vivessero gli uomini e di come si fosse messa tale o tal’altra cosa tra di loro. Una volta, in un pomeriggio domenicale, seduti che eravamo su una panca all’ombra di un tiglio, mi raccontò la seguente storia”.
Inizia così l’avventura di Krpan, un uomo forzuto che abitava nel villaggio di Vrh, in quel di Sveta Trojica (Santa Trinità), retto da una sindachessa (poiché nel pensiero politico di Levstik era inclusa anche la parità di genere).
Martin viveva in maniera semplice, dedicandosi al commercio illegale di sale inglese e difendendosi dalle guardie con la potenza sovrumana dei suoi muscoli; sempre grazie alle sue doti fisiche il robusto provinciale venne notato dall’Imperatore d’Austria che lo reclutò per eliminare il gigante Brdavs, che aveva ucciso il figlio del monarca e tanti altri valorosi combattenti. Il vrhosciano era talmente massiccio che non sapeva che farsene delle armi convenzionali:
“Quando giungono all’armeria, vale a dire in quel deposito dove si conservano le armi, cioè sciabole, spade, piastre d’acciaio da portarsi sul petto, elmi e come ancora si chiama questo e quello, Krpan sceglie e sceglie, ma tutto quello che afferra lo fa a pezzi tra le mani, tanto esse sono potenti. A vedere questo, l’imperatore ha quasi i brividi”.
Così il prode sloveno si fabbricò da solo una grossa mannaia, lavorandone personalmente la lama nella fucina, e una mazza di legno di tiglio (simbolo di slavità). È una delle scene più belle del racconto, chissà se Levstik quando la immaginò aveva in mente il grande arsenale arciducale del Landeszeughaus di Graz, il più antico della Stiria, allestito tra il 1642 e il 1645 come baluardo contro la minaccia turca.
Anche i cavalli della scuderia imperiale erano inadatti al condottiero carniolino, che scelse di servirsi della sua fidata cavallina. Giunto infine al cospetto del gigante, il difensore di Vienna non si fece intimorire per un solo secondo, bloccò la scimitarra del mostro con la mazza, lo gettò al suolo e in pochi attimi lo decapitò, dandogli solo il tempo di pentirsi dei suoi peccati e recitare la sua ultima preghiera.
Il paladino tornò quindi nella capitale austriaca da vincitore, ma ebbe presto dei contrasti con la famiglia imperiale, che per liberarsi di lui gli accordò un diploma per poter trafficare liberamente il sale inglese (simbolo delle leggi particolari invocate dal popolo della Carniola).
La letteratura popolare slovena: tra etnografia e ideologia
Nel 2017, presso l’università di Padova, ha avuto luogo AltrEurope, un seminario di studi sull’Europa centro-orientale e sud-orientale. Tra i diversi interventi, il ciclo ha ospitato la conferenza “La letteratura popolare slovena: tra etnografia e ideologia”, tenuta il 4 aprile dal professor Han Steenwijk, che ha esaminato anche Martin Krpan. Il relatore ha spiegato lo sviluppo tardivo del Romanticismo in Slovenia e ha messo in risalto come, dagli anni ’50 dell’Ottocento in poi, la letteratura sia stata intesa dagli intellettuali come la vera fonte della cultura del paese. Dopo il 1848, a fronte delle alterne vicende della “primavera dei popoli”, i letterati sloveni cercarono di impegnarsi per l’educazione delle masse, poiché ritenevano che solo una popolazione istruita potesse garantire l’esistenza di una nazione.
Soffermandosi su Levstik, l’accademico ha esposto i dubbi degli studiosi nei confronti dell’effettiva esistenza di Krpan nei canti autenticamente popolari. La storia del contrabbandiere valoroso sembrerebbe porre delle questioni di critica sociale e politica (che per altro a Vienna non passarono inosservate), ma è una figura che si presta a molteplici interpretazioni.
A ben vedere, Martin Krpan non si presenta mai come sloveno, ma sempre come abitante del suo paesino, esprimendo una sensibilità localistica anziché nazionale: egli è quindi un primitivo “eroe della mazza” e del suo borgo? Un novello Eracle che combatte in difesa del municipio?
Effettivamente, da certe frasi si può cogliere un deciso rifiuto del centralismo, che si risolve con il privilegio della vendita del sale:
“Non ero io che avevo bisogno di Vienna, era Vienna ad avere bisogno di me! Ed ora è così che ci si comporta con me? Non basta: devo ingoiarmi mortificazioni anche per via della carne e del vino”.
Per un profano, nella trama, il motivo strettamente nazionalistico potrebbe apparentemente non risultare riconoscibile, poiché non è espresso con tratti marcati, ma da tale scelta si potrebbe anche intendere che gli sloveni non intendevano formulare le loro richieste di autonomia in chiave anti-austriaca, bensì restando parte dell’Impero per cui combattevano, come nazione libera tra nazioni libere.
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Lo storico Darko Darovec nel suo saggio Il contrabbando, le rivolte contadine e Martin Krpan come mito nazionale costitutivo sloveno (apparso nel volume Per Furio. Studi in onore di Furio Bianco, a cura di Alessio Fornasin e Claudio Povolo, Udine, Forum, 2014, pp. 267-292) analizza la questione del ribelle sociale e della ribellione rurale come momento fondativo dell’identità slovena. A questo primo aspetto si affianca la palese allegoria dell’invasione musulmana, impersonata dal gigante barbaro e malvagio che disturba l’ordine costituito come i turchi che assediarono Vienna nel 1529 e nel 1683. Queste due aggressioni alla cattolicità segnarono profondamente la memoria popolare degli sloveni, che con la favola del contadino erculeo presentano loro stessi come veri artefici della riscossa cristiana. Il racconto di Martin Krpan, allora, è anche un esempio di ricezione della tradizione biblica che fa da modello alla letteratura, egli imita Davide:
“Tu vieni a me con la spada, con la lancia e con l’asta. Io vengo a te nel nome del Signore degli eserciti, Dio delle schiere d’Israele, che tu hai insultato.”
dice David nelle Sacre Scritture
“In questo stesso giorno, il Signore ti farà cadere nelle mie mani. Io ti abbatterò e staccherò la testa dal tuo corpo [...]”.
L’eroe ebbe così il sopravvento sul filisteo utilizzando solo la fionda e una pietra, lo colpì e lo uccise benché non avesse spada. Il Davide slavo e contadino in lotta contro il Golia dei turchi simboleggia il coraggio degli sloveni, un piccolo popolo che riesce a bloccare l’avanzata degli invasori islamici che percorrono i Balcani. Gli sloveni sperimentarono davvero la violenza dei musulmani, che colpirono ripetutamente le loro terre con frequenti incursioni e scorrerie, ossia la pratica del ghazw (dall’arabo, razzia). Il saccheggio era parte integrante della vita degli arabi e con l’Islam nacque “la razzia legale nel paese degli infedeli”, presso i turchi chi compiva il dovere religioso dell’attività bellica riceveva quindi il titolo di ghāzī, che col tempo divenne un’onoreficenza militare.
Seguendo la morale del racconto, la nazione slovena nacque dal desiderio di autonomia dall’Austria e dalla lotta contro i musulmani; al di là di queste due letture ideologiche, tuttavia, forse nessuno studioso ha ancora messo in luce come nella storia di Martin Krpan emerga lo schema del personaggio che vive al margine della società, campando di espedienti (o in un sistema di “illegalità accettabile”), per poi tramutarsi all’occorrenza in eroe popolare.
Chi scrive desidera perciò avanzare un’ulteriore osservazione, anche se forse risulterà azzardata: il profilo di Martin potrebbe inserirsi in un topos proprio della tradizione slava. Come tutti sapranno, oggi il mondo degli slavi appare diviso al suo interno da seri contrasti di natura storica e culturale, eppure da Trieste alla Russia, sondando la letteratura e il materiale folklorico, si può rinvenire la figura di un personaggio bizzarro: nelle storie dei popoli di lingua slava ve ne sono alcune che raccontano di individui normalmente emarginati dalla società che in caso di guerra si convertono in combattenti al servizio di una causa importante o della comunità.
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A parere dello scrivente si potrebbe parlare dell’archetipo del “buon soldato”, in omaggio al famoso romanzo satirico di Jaroslav Hašek (1883-1923) intitolato Il buon soldato Sc’vèik (edito tra il 1921 e il 1923, ma rimasto incompiuto). Il protagonista dell’opera di Hašek è uno scapestrato boemo che di punto in bianco si infervora e decide di partire a tutti i costi per difendere la patria austriaca durante il primo conflitto mondiale:
“All’epoca in cui le boscaglie che costeggiano il fiume Rab in Galizia lo vedevan guadare dall’esercito austroungarico in rotta e che laggiù in Serbia le divisioni della Monarchia riscuotevano sul fondo dei calzoni ciò che da lungo tempo era loro dovuto, il Reale e Imperiale Ministero della Guerra si ricordò anche di Sc’vèik, che venisse lui a cavar l’Austria-Ungheria dai pasticci”.
Così l’ubriacone Sc’vèik si trasformò in un tragicomico paladino dell’impero multiculturale:
“Quando c’è la guerra, bisogna vincerla e gridare Evviva Sua Maestà l’Imperatore”
proclama pieno di entusiasmo,
“nessuno sarà capace di farmi pensare il contrario!”
Certo, con le sue avventure etiliche il boemo tende ad avvicinarsi ai connotati del soldato fanfarone di plautina memoria, ma il concetto fondamentale è quello di un derelitto che diventa un guerriero fedele. Personaggi di questo tipo, invero, sono esistiti anche nella realtà: il “buon soldato” slavo ha trovato le sue incarnazioni più recenti in uomini come lo scrittore russo Eduard Limonov (1943-2020) che dopo una vita di dissolutezze, nel 1991, ha scelto di combattere dalla parte dei nazionalisti serbi nella guerra di Bosnia, e il cantante punk croato Ivica Čuljak (1960-1992), meglio noto col nome d’arte di Satan Panonski. Questo musicista era conosciuto per le sue esibizioni dissacranti, ma si immolò nella guerra d’indipendenza del suo paese (1991-1995): fu uno strano percorso quello del “GG Allin croato”, crebbe come un nichilista, ma morì da patriota.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Martin Krpan, un eroe popolare sloveno nel racconto di Fran Levstik
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