Vita di un perdigiorno
- Autore: Joseph von Eichendorff
- Genere: Classici
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: BUR
- Anno di pubblicazione: 2015
“Tutti noi abbiamo letto da giovani la novella di Joseph von Eichendorff, serbandone in cuore per sempre l’eco di un tenue tocco d’arpa”
scriveva Thomas Mann nel 1918. Gli faceva eco Lukács nel 1956:
“I sogni eichendorffiani di una realtà migliore dei sinistri abissi della vita, sono in realtà sogni ad occhi aperti... È una nostalgia soggettivamente autentica e profonda, ma con una certa coscienza di essere soltanto una musica che accompagna la vita reale”
“Vita di un perdigiorno” (Bur Rizzoli, 2015) è una recente edizione della famosissima novella di Joseph von Eichendorff, introdotta dall’acuto saggio di Giulio Schiavoni, che ben illustra non solo “le pagine ariose ed agili” del racconto, ma anche l’ideologia sottesa alla formulazione del testo, i motivi del suo prolungato e universale successo, i dati biografici e le tesi politiche del suo autore.
Il barone von Eichendorff era nato nel 1788 in Slesia, da una famiglia di nobili proprietari terrieri presto travolti dal nuovo corso della storia europea (la rivoluzione francese, le guerre napoleoniche e poi il dominio asburgico), dalle rivendicazioni ugualitarie dei contadini e dalla nascente industrializzazione.
Costretto a impiegarsi come funzionario governativo dopo la bancarotta familiare, Eichendorff si rifugiò nell’utopia di un nuovo umanesimo, che restaurasse gli antichi valori cattolici e il trascorso ordine sociale. La sua notevole produzione letteraria conobbe subito grande fama soprattutto con la pubblicazione, nel 1826, del suo capolavoro “Vita di un perdigiorno”, inno immaginoso e sentimentale alla gioia di vivere, all’ “eterna domenica in cuore” del suo giovane, scanzonato e ingenuo protagonista.
Il perdigiorno (der Taugenichts) è uno svagato ragazzo di campagna che al lavoro nel mulino del padre preferisce l’ozio e il vagabondaggio avventuroso nel “libero e vasto mondo”, con la sola compagnia del suo violino e del suo canto. Mettersi in viaggio, vivere nella natura, godere delle bellezze paesaggistiche, sognare l’amore: lontano dalla schiavitù di un lavoro ripetitivo, dagli interessi economici, dalla pigrizia egoista dei più. Preferire alla realtà della storia l’irrealtà del sogno e della fantasia, la precarietà di lavori saltuari, l’ideale di una passione romantica, la dolcezza della musica.
“Villaggi, giardini e campanili scomparivano dietro di me; nuovi villaggi, castelli e montagne sorgevano davanti, in alto; ai miei piedi sfilavano distese di campi, cespugli e prati, mentre le allodole si alzavano nell’aria limpida e azzurra...
Era talmente bello nel giardino, all’aperto. I fiori, le fontane zampillanti, i rosai, l’erba e le piante scintillavano al primo sole come oro puro e pietre preziose; nei viali sotto gli alti faggi tutto era quieto, fresco e raccolto come in una chiesa...”
Contano poco, in questa fiaba ottocentesca in versi e prosa, gli avvenimenti che si succedono, i viaggi e gli incontri del protagonista, il suo idillio con la bella signora creduta nobile e alla fine rivelatasi del suo stesso ceto. Ha più importanza l’atmosfera festosa, indeterminata, fantastica, perpetuamente meravigliata del mondo e del suo splendore in cui il giovane vaga, mentalmente e fisicamente, nel corso della storia: l’insopprimibile gioia interiore di un’anima candida, contenta di esistere.
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