Il 31 gennaio 1854 si spegneva a Torino, a soli sessantacinque anni, il patriota e poeta Silvio Pellico. Oggi il suo nome è strettamente legato al capolavoro Le mie prigioni (1832) e al ricordo degli anni di prigionia scontati come pena per aver aderito ai movimenti carbonari.
Attraverso Le mie prigioni, scritto dopo quindici anni trascorsi nel carcere dello Spielberg, Pellico ha regalato a tutti gli italiani un’importante lezione di patriottismo e, soprattutto, un incommensurabile elogio alla fede, all’amore, alla libertà.
Di fronte al palazzo in cui visse oggi è infissa una targa sbiadita che lo segnala come punto di riferimento turistico:
In questa casa Silvio Pellico reduce dallo Spielberg nel 1832 lanciò Le mie prigioni vibrante d’italianità subalpina arma formidabile ad affrettare i destini della Patria.
Ma chi era Silvio Pellico? E cosa parla il suo capolavoro Le mie prigioni? Vediamo più approfonditamente la vita e le memorie del grande intellettuale italiano.
Silvio Pellico: la vita
Silvio Pellico nacque il 25 giugno 1789 a Saluzzo, in provincia di Cuneo, da un’agiata famiglia borghese. Trascorse la giovinezza in Francia, a Lione, dove intraprese gli studi di economia e commercio, seguendo la volontà paterna.
La sua era una famiglia di commercianti, tuttavia la vocazione di Pellico era di tutt’altro genere: lo appassionavano le lettere e gli studi umanistici, aveva talento per la scrittura e la poesia.
Nel 1809, terminati gli studi, si riunì alla famiglia a Milano e iniziò a insegnare francese presso il Collegio Militare degli Orfani, in seguito come precettore privato. In quegli stessi anni Pellico iniziò a frequentare i circoli letterari milanesi, stringendo amicizia con Vincenzo Monti e Ugo Foscolo di cui era grande ammiratore.
In quello stesso periodo, per diletto, Pellico iniziò a scrivere tragedie in versi di impianto classico, come in versi di impianto classico, come Laodamia (1813) ed Eufemio di Messina (1814). Nel 1815 venne rappresentata Francesca da Rimini, la sua tragedia più famosa, che vide protagonista la grande attrice Carlotta Marchionni.
Silvio Pellico e la Carboneria
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Dopo la caduta del regime napoleonico Pellico perse la cattedra presso il collegio e iniziò quindi a lavorare come istitutore privato. Nello stesso periodo cominciò a seguire con interesse gli ideali risorgimentali nascenti che si diffondevano nei circoli culturali dell’epoca. Nel 1818 collaborò alla rivista Il Conciliatore fondata da fervidi liberali, Federico Lambertenghi e Luigi Porro Confalonieri. Il periodico milanese fu soppresso dagli Austriaci l’anno successivo a causa degli ideali liberali propulsivi che propugnava.
Pellico, incoraggiato dal collega e patriota Pietro Maroncelli, aderì alla società segreta della Carboneria nella quale si dibattevano questioni rivoluzionarie. Per questo motivo Silvio Pellico venne arrestato il 13 ottobre 1820.
Era l’inizio de Le mie prigioni:
Il venerdì 13 ottobre 1820 fui arrestato a Milano, e condotto a Santa Margherita. Erano le tre pomeridiane. Mi si fece un lungo interrogatorio per tutto quel giorno e per altri ancora.
Pellico fu trasferito al carcere dei Piombi di Venezia e, in seguito, nella prigione dell’isola di Murano. Nel febbraio 1822 Pellico e Maroncelli vennero processati e condannati a morte.
In seguito la pena di entrambi fu commutata in quindici anni di carcere duro da scontarsi nella fortezza austriaca dello Spielberg, in Moravia, l’attuale Repubblica ceca.
Silvio Pellico e la scrittura de Le mie prigioni
Nel 1830, in seguito alla scarcerazione grazie al condono di alcuni anni di pena, Silvio Pellico fece ritorno a Torino.
Lavorò come bibliotecario e continuò a scrivere tragedie e opere teatrali. Tuttavia non era più lo stesso, l’esperienza del carcere lo aveva mutato profondamente nell’animo. Nel 1831, su suggerimento del proprio confessore, iniziò a scrivere Le mie prigioni, un libro che sarà la sua àncora di salvezza.
Raccontare le proprie memorie servì da terapia a Pellico, sopravvissuto ad anni di carcere duro, e al contempo lo aiutò a divulgare in forma scritta i propri ideali.
L’opera ebbe grande fortuna, divenne uno dei libri italiani più letti nell’Europa dell’Ottocento. Inoltre il libro ebbe il merito indiscusso di fomentare gli ideali patriottici nei salotti intellettuali italiani.
“Le mie prigioni” di Silvio Pellico: la trama dell’opera
Il vivere libero è assai più bello del vivere in carcere; chi ne dubita.
Le mie prigioni riuscì ad arginare la censura, grazie al sostegno del ministro guardasigilli Luigi Giuseppe Barbaroux, e fu pubblicato dall’editore torinese Bocca nel novembre 1832.
Attraverso le sue memorie del carcere, Pellico compose un libro di straripante umanità. Nessun aspetto della durezza del carcere austriaco venne taciuto: l’autore descrisse con acuto realismo la vita all’interno dello Spielberg, tuttavia, pur nella miseria della sua condizione, scrisse pagine cariche di spiritualità.
La profonda sensibilità di Pellico fu infatti ravvivata dall’isolamento patito. Nelle righe delle sue memorie lo scrittore parlò spesso della fede in Dio e della sua estrema fiducia nell’uomo. Persino nel burbero carceriere Schiller, che svolge il suo compito con riluttanza, Pellico riesce a intravedere uno spiraglio d’umanità.
Nelle pagine veniva descritta la pena del carcere duro: i detenuti dovevano portare una catena ai piedi quando si trovavano nella cella, ma non erano condannati all’isolamento, avevano l’obbligo del lavoro. Il lavoro dei carcerati era esclusivamente manuale: potevano segare la legna, oppure lavorare a maglia. Un lavoro duro per Pellico, che era abituato a una vita più intellettuale.
I detenuti dovevano alzarsi all’alba, pulire la propria cella e, in seguito, dedicarsi alla giornata di lavoro - che era contraddistinta da un ritmo serrato nella produzione, pena: il salto del pranzo. Per pranzo veniva sempre servita una brodaglia, la brenn-zuppe, che lo stesso Pellico definì come una brodaglia insipida condita con una salsa immangiabile.
Ma la pena più atroce per Silvio Pellico era di non poter scrivere. L’autore racconta che i carbonari, per poter soddisfare questa loro esigenza intellettuale, creavano pennini dagli stuzzicadenti e l’inchiostro dai medicinali o dai succhi alle erbe. Una volta ai detenuti furono sequestrati persino gli occhiali durante le perquisizioni giornaliere: i carcerieri volevano privarli dei loro ideali, ma non ci riuscirono. “Siamo condannati al carcere duro, non alla cecità”, scrisse Pellico.
“Le mie prigioni” di Pellico: la pubblicazione dell’opera
Le ragioni che avevano dato vita a Le mie prigioni vennero rivelate solo successivamente alla sua pubblicazione, quando Pellico decise di aggiungere qualche capitolo all’opera.
Nella traduzione francese del 1843 comparvero per la prima volta anche i cosiddetti “capitoli aggiunti”, appartenenti a un’opera autobiografica rimasta incompiuta nella quale Pellico descrisse il periodo immediatamente successivo alla propria liberazione.
In queste parti aggiuntive lo scrittore aggiunse le motivazioni che lo avevano spinto a raccontare la propria esperienza carceraria.
L’intento di Silvio Pellico tramite la stesura de Le mie prigioni era quello di:
Contribuire a confortare qualche infelice coll’esponimento de’ miei mali che patii e delle consolazioni ch’esperimentai essere conseguibili nelle somme sventure.
Non uno scopo militante o patriottico dunque, ma consolatorio. Alcuni capitoli intrisi di spiritualismo e di fede cattolica furono in seguito criticati dai progressisti sabaudi che accusarono Pellico di “eccessiva indulgenza verso gli austriaci”. Pellico in carcere aveva riscoperto la fede e volle portare ad esempio, tra le righe delle sue memorie, ciò che gli aveva permesso di sopravvivere ai momenti più duri della sua prigionia.
L’edizione francese de Le mie prigioni venne in seguito tradotta in italiano ed è in questa redazione che l’opera è oggi universalmente conosciuta.
La sua redazione originale venne scoperta nella Bibliotèque Nationale di Parigi nel 1932.
Quando in Italia iniziarono a circolare le prime copie de Le mie prigioni di Silvio Pellico, Metternich disse che il successo di quel libro era:
“Più grave di una battaglia perduta”.
Ma gli austriaci, erroneamente, non diedero peso alle memorie di un rivoluzionario pentito. Credevano che l’esperienza del carcere duro parlasse chiaro, invitando gli aspiranti rivoluzionari a non seguire l’esempio di Pellico. Ignoravano il potere della propaganda, e la forza propulsiva della letteratura che avrebbe spinto all’azione un intero popolo.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Le mie prigioni” di Silvio Pellico: viaggio nelle memorie di un rivoluzionario
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