Nel febbraio del 1911 Umberto Saba inviava alla rivista fiorentina La Voce un proprio breve saggio intitolato Quello che resta da fare ai poeti.
Lo scritto fu respinto e non venne pubblicato; vi era in esso qualcosa di talmente scomodo da renderlo indigesto persino a una rivista letteraria d’avanguardia come quella fondata da Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini nel fervore culturale di inizio Novecento.
Quello che resta da fare ai poeti fu pubblicato postumo, dopo la morte di Saba, nel 1959. In quelle parole a posteriori si coglieva il più autentico manifesto di poetica dell’intellettuale triestino: in esse infatti Saba affermava la necessità della chiarezza e dell’onestà che sarebbero stati i due poli cardine della sua scrittura.
Ma cosa vi era di tanto scomodo in questo saggio? Per quale motivo l’eminente rivista fiorentina si rifiutò di pubblicarlo?
Scopriamolo nell’approfondimento che segue, analizzando anche il significato di poesia onesta.
Cos’è la poesia onesta per Umberto Saba
Lo scritto di Saba esordiva con queste parole che appaiono già come una risposta perentoria alla domanda implicita nel titolo del saggio, ovvero: “cosa resta da fare ai poeti?”
Ai poeti resta da fare la poesia onesta. C’è un contrapposto che se può sembrare artificioso, pure rende abbastanza bene il mio pensiero. Il contrapposto è tra i due uomini nostri più compiutamente noti che meglio si prestano a dare un esempio pratico di quello che intendo per onestà e disonestà letteraria: è fra Alessandro Manzoni e Gabriele D’Annunzio: fra gli Inni Sacri e i Cori dell’Adelchi e il libro delle Laudi e la Nave: fra versi mediocri e immortali e magnifici versi per la più parte caduchi.
Attraverso l’opposizione netta tra due mostri sacri della letteratura, Alessandro Manzoni e Gabriele D’Annunzio, il poeta cercava di certificare il concetto di poesia onesta.
Per Saba poteva definirsi “onesto” ciò che implicava una ricerca profonda della verità, spingendosi al fondo dell’inconscio come la psicanalisi. Chi ha rispetto per la propria anima, affermava il poeta di Trieste, di conseguenza lo ha anche per il pubblico al quale si rivolge e dunque per i suoi lettori. Saba individuava una forma di corrispondenza quasi sacrale tra il pensiero e lo scritto che dovevano essere legati da un reciproco vincolo di sincerità.
Alcuni passi del testo posso essere letti come una sorta di invettiva contro il poeta vate, Gabriele D’Annunzio: a lui Saba rimproverava la finzione, l’artificio, la ricerca della strofa appariscente, del verso clamoroso. Alla passionalità esasperata e falsa di D’Annunzio, il poeta contrappone la limpida chiarezza della prosa manzoniana. Manzoni - sostiene Saba - non inserisce nel testo neppure una parola che sia contraria alla propria visione. Il poeta triestino definisce D’Annunzio “un poeta ubriaco”, che si compiace della sua ubriachezza, mentre identifica Manzoni come un tipo sobrio e più moderato che non tende a ingannare il lettore con false apparenze.
Le ragioni della non pubblicazione del saggio da parte della rivista “La Voce” sono probabilmente da rintracciare in questo attacco aperto - e per niente velato - a Gabriele D’Annunzio che, lo ricordiamo, all’epoca era al culmine della fama. Mosso da un chiaro intento polemico Saba giunge a definire i versi dannunziani “magnifici e caduchi”, come se si trattasse di una costruzione artificiosa di belle apparenze destinata un giorno a scomparire a fronte della nitida e vera realtà. Oltretutto Saba accusava D’Annunzio di essere un “poeta disonesto” perché si rifaceva a esempi e schemi classici, imitando la poesia latina e greca anziché tentare un’opera di “nuovissima creazione”.
Chiarezza e onestà nella poesia di Saba
In un secondo passaggio di Quello che resta da fare ai poeti troviamo questa interessante affermazione:
Il poeta deve tendere ad un tipo morale il più remoto possibile da quello del letterato di professione ed avvicinarsi invece a quello dei ricercatori di verità esteriori o interiori.
Umberto Saba compone un elogio all’onestà letteraria. Per lui il poeta non è un letterato di professione, ma innanzitutto un “ricercatore di verità”. Si può cogliere in questa espressione un riflesso di quella che sarà la sua poesia più bella Amai:
Amai la verità che giace al fondo
quasi un sogno obliato
che il dolore riscopre amica.
Nella conclusione del saggio, Saba affermava che le verità esteriori e interiori erano da considerarsi un tutt’uno e che al poeta spettava il compito di giungere a investigare soprattutto le seconde, quelle interiori, attraverso una più alta forma di intellettualità.
Quello che resta da fare ai poeti oggi può essere letto come un testo reazionario Nel delineare i contorni di ciò che sarebbe stata la sua personale poetica, Saba contestava il modo condiviso di concepire la poesia e la figura stessa del letterato.
Affermava che non spettava all’autore decidere la propria poesia a tavolino, ma doveva essere la scrittura stessa, quindi la parola, a guidarlo. Un’idea incredibilmente moderna che di certo doveva apparire indigesta a chi ancora concepiva una visione elitaria della letteratura, come di una disciplina distaccata dal sentire quotidiano e proiettata nell’orizzonte aulico della tradizione mitologica e dell’arte retorica.
La poesia, secondo il giudizio del poeta triestino, doveva obbedire a un’unica cifra stilistica: quella dell’originalità. Secondo Saba l’originalità era la chiave perché un poeta trovasse sé stesso, la propria voce. Tramite questa considerazione il poeta sembrava rinnegare la propria produzione giovanile che appare, a una più attenta lettura, fortemente influenzata da altri autori. Per fare vera poesia bisogna invece essere onesti, ovvero il più fedeli possibile a sé stessi e al proprio universo interiore.
Umberto Saba e la nascita della poesia moderna
Quella concepita da Umberto Saba è, in breve, una poesia moderna che obbedisce a un principio di sincerità in cui la narrazione aderisce alla realtà così come è e non mira a stravolgerla. Si delineava così una poesia anti-novecentesca che avrebbe preso il nome di linea sabiana secondo la denominazione coniata da Pasolini. La linea sabiana rappresentava una poesia opposta alle avanguardie che non aveva alcun rapporto o legame con l’ermetismo o il simbolismo.
Quello di Saba appare come un manifesto programmatico che investe colui che scrive di una responsabilità superiore: una responsabilità, a tutti gli effetti, morale. Il poeta deve rendere conto di ciò che scrive e non a Dio o a un’entità superiore, ma in primo luogo a sé stesso, alla propria coscienza di uomo.
Saba contrappone la verità alla bellezza; la chiarezza all’oscurità e l’onestà all’artificio: sono questi i punti cardine della sua poetica. Il suo unico torto, quando scrisse quel saggio, fu quello di non essere ancora l’autore acclamato del Canzoniere (1921) e dunque di non potersi fregiare ancora del nobile titolo di Poeta. Le sue parole acquisirono il valore, che
a tutti gli effetti meritavano, soltanto a posteriori.
Ora possiamo cogliere in questo scritto una dichiarazione di intenti e di poetica da parte dell’intellettuale triestino. Vi era in queste parole il nocciolo originario della sua poesia e un tentativo nobile di far chiarezza su sé stesso e illuminare la propria persona.
La poesia di Saba è già tutta racchiusa, in nuce, in questo testo: vi si rintracciano i personaggi umili e smarriti di Città vecchia, le creature della vita e del dolore, la rima dalla chiarezza semplice ed elementare“ fiore/amore”, e infine le parole in cui il cuore dell’uomo si specchiava all’improvviso “nudo e sorpreso”.
Il grande critico e filologo Pier Vincenzo Mengaldo dichiarò che Umberto Saba ebbe il merito di riuscire a far coincidere lingua personale, lingua nazionale e lingua letteraria esprimendo una “assoluta modernità di esistenza e di psichismo”.
L’attualità della parola poetica di Saba
Il merito del bel saggio di Saba Quello che resta da fare ai poeti, il motivo che ci spinge ancora oggi a leggerlo e a riscoprirlo, è l’importanza che l’intellettuale triestino attribuisce alle “parole che usiamo”.
I principi di onestà, chiarezza, sincerità rappresentano i capisaldi della scrittura, ciò a cui un autore dovrebbe sempre ambire nel momento in cui si approccia a una pagina bianca. Il culto quasi sacrale che Umberto Saba nutriva nei confronti della parola onesta è forse il più autentico manifesto di poetica che sia stato scritto perché si appella direttamente alla coscienza morale dell’umanità. Ci ricorda che noi siamo le nostre parole, quelle che diciamo, che scriviamo, che affidiamo agli altri e dunque esistono al di fuori di noi. E che le parole hanno un peso, sempre.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Quello che resta da fare ai poeti: la poesia onesta secondo Umberto Saba
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