Non tutti i bastardi sono di Vienna è il primo romanzo scritto dal saggista e traduttore veneziano Andrea Molesini. L’opera è stata pubblicata dall’editore Sellerio nel 2010 e ha raccolto forti consensi presso il pubblico italiano e straniero.
Il libro racconta la storia di Villa Spada, un palazzo di provincia che dista poche miglia dal Piave, e della famiglia che la abitava al tempo dell’occupazione austriaca successiva alla sconfitta di Caporetto (24 ottobre 1917). Quando i soldati stranieri giunsero in paese presero possesso dell’antico edificio e lo adibirono a comando militare, instaurando un rapporto di precaria convivenza con i proprietari della dimora.
La voce narrante è quella di un diciassettenne alle prese con il suo primo innamoramento, Paolo, che si trova costretto a vivere le atrocità della Grande Guerra.
Nel suo testo Molesini mostra a mio parere alcune difficoltà nell’approcciarsi a un genere per lui nuovo: i personaggi si riducono spesso a figure macchiettistiche e non risultano sempre convincenti, mentre l’inserimento di vocaboli e frasi dialettali per conferire maggior realismo alle vicende perde di efficacia con l’ossessiva ripetizione del ritornello blasfemo “diambarne de l’ostia”, scelto persino come conclusione del libro. Forse, con questa cantilena snervante e l’aggiunta di alcune insulse amenità anticlericali, l’autore sperava di strappare qualche sorriso ai lettori, ma ha finito per rovinare i dialoghi, di per sé non del tutto privi di interesse.
La forza del testo, e ciò che lo rende complessivamente un romanzo discreto, risiede invece nell’ambientazione storica che tocca un aspetto delle vicende della Prima Guerra Mondiale a lungo tralasciato dagli studiosi. La narrazione si sviluppa attraverso i mesi che vanno dal novembre del 1917 all’ottobre del 1918; dopo la disfatta di Caporetto e la sconfitta di Cividale (27 ottobre 1917), il Veneto fu invaso dalle armate avversarie, il fronte arretrò e si spostò sulla linea del Piave. Venezia divenne un baluardo difensivo e fu utilizzata come base per operazioni belliche e rifornimenti.
Per gli italiani il 1917 fu l’anno più duro della Grande Guerra e si arrivò a temere che il nemico potesse discendere nella Penisola, ma la riscossa giunse nell’ottobre del 1918 quando gli austriaci vennero battuti e costretti a ritirarsi.
Il tema centrale del libro è quello della resistenza dei civili italiani nelle zone occupate, ma un simile scenario consente anche al romanziere di introdurre nella sua opera delle riflessioni storiche, ossia delle previsioni sul futuro e delle interpretazioni del passato e del presente, che fa pronunciare ai suoi personaggi.
Sotto forma di timori e congetture, ad esempio, vengono avanzate delle vaghe ipotesi sul presunto desiderio degli austriaci di annettersi le province che avevano fatto parte del Regno Lombardo-Veneto.
Molesini non palesa le sue fonti storiche e non è un’impresa facile individuare i saggi che potrebbe aver consultato, la nota che egli ha posto alla fine del volume indica un solo titolo:
“Il dramma è ispirato da alcuni fatti realmente accaduti, narrati nel Diario dell’invasione di Maria Spada (Edizione privata, Vittorio Veneto 1999, pp. 35), tuttavia si tratta di opera d’immaginazione e ogni riferimento a persone vive o vissute deve essere considerato casuale. Storici, invece, sono i luoghi protagonisti della vicenda”.
Sono diversi i passi di Non tutti i bastardi sono di Vienna che meriterebbero di essere presi in considerazione, ma in questa sede chi scrive intende analizzarne esclusivamente uno, che si incontra verso la fine della storia:
“Ma quella volta il contrattacco del nonno non puntò in profondità, anzi, dopo una breve esitazione che gli costò tutto lo slancio offensivo, sembrò passare dalla parte del nemico: «Forse l’Italia è un progetto fallito... niente più di un’espressione geografica... Metternich aveva ragione... e il plebiscito che legittimò l’annessione di Venezia al neonato regno d’Italia è stato un imbroglio: chi ci crede che i contrari fossero così pochi?».
«Cosa?!». La sortita del nonno aveva riacceso gli occhi e le guance mal rasate del maggiore Manca.
«Un’espressione geografica... sì, finita nella pancia molle del Regno di Sardegna, però. Non vi scordate che Vittorio Emanuele II» la pipa di Renato si spense «non ha cambiato nome diventando il re d’Italia. Secondo era come re di Sardegna e Secondo resta come re d’Italia. Eh sì» portò lo zolfanello acceso alla pipa «mica ci siamo fatti con le nostre mani, non siamo stati gli artefici di noi stessi, noi italiani... i piemontesi... forse...».”
Analizzando le parole del personaggio letterario, si deve innanzitutto osservare che la questione del numerale di Vittorio Emanuele, divenuto re d’Italia il 17 marzo 1861, è una vecchia argomentazione anti-sabauda, utilizzata da alcuni scrittori per mostrare il carattere annessionistico del nuovo stato, nato come estensione del Piemonte. Tuttavia, Vittorio Emanuele volle conservare il numerale II per semplice rispetto dei suoi antenati: si trattò di una decisione (non unica nella storia) che deve essere contestualizzata e a cui va attribuita un’importanza relativa.
In secondo luogo emerge il tema della critica ai plebisciti risorgimentali, un argomento già toccato dalla letteratura italiana. Riguardo questi fatti storici, il primo riferimento che può venire in mente a chiunque è un famoso passaggio de Il Gattopardo (1958) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957):
“Io, Eccellenza, avevo votato ‘no’. ‘No’, cento volte ‘no’. Ricordavo quello che mi avevate detto: la necessità, l’inutilità, l’utilità, l’opportunità. Avrete ragione voi, ma io di politica non me ne sento. Lascio queste cose agli altri. Ma Ciccio Tumeo è un galantuomo, povero e miserabile, coi calzoni sfondati (e percuoteva sulle sue chiappe gli accurati rattoppi dei pantaloni da caccia) e il beneficio ricevuto non lo aveva dimenticato; e quei porci in Municipio s’inghiottono la mia opinione, la masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro. Io ho detto nero e loro mi fanno dire bianco! Per una volta che potevo dire quello che pensavo quel succhiasangue di Sedàra mi annulla, fa come se non fossi mai esistito”.
Fu forse il fascino esercitato da Il Gattopardo a spingere Indro Montanelli (1909-2001) a esporre delle considerazioni negative sui plebisciti risorgimentali:
“L’Italia è finita. O forse, nata su plebisciti-burletta come quelli del 1860-61, non è mai esistita che nella fantasia di pochi sognatori, ai quali abbiamo avuto la disgrazia di appartenere”.
Come si può notare, le parole del giornalista si avvicinano a quelle del romanzo, tuttavia il testo che potrebbe aver ispirato Molesini potrebbe essere un altro.
I libri che criticano l’‘antidemocraticità’ del plebiscito veneto, ascrivibili alla categoria del revisionismo storico, risalgono solo agli ultimi decenni del Novecento e chi scrive si sente di ipotizzare che Molesini sia stato influenzato dalla lettura di uno di questi saggi in particolare, ossia 1866: la grande truffa, Il plebiscito di annessione del Veneto all’Italia di Ettore Beggiato, pubblicato per la prima volta nel 1999. Nel marzo del 2019 il libro di Beggiato è giunto alla sua quinta edizione, ma le varie revisioni e ampliamenti (per altro molto modesti) non ne hanno alterato lo stile dilettantistico.
Prima di procedere con ulteriori analisi va chiarito, almeno sinteticamente, cosa si intende per “revisionismo storico”. Un normale dibattito storiografico non si alimenta di “revisioni”, ma di reinterpretazioni, discussioni, confronti e comparazioni. Secondo gli storici Walter Panciera e Andrea Zannini:
“Sul piano storiografico, il termine revisionismo, già viziato da questo disinvolto uso polemico, ha assunto allora il significato (sia positivo, sia negativo) di critica piuttosto pesante nei confronti di una certa ortodossia interpretativa dominante. Ciò presuppone che esista davvero un’ortodossia, un dogma, una qualche ‘chiesa’ storiografica che difende un tipo di interpretazione rigida, considerata intangibile. Un famoso caso di revisionismo in Italia riguardò tra le due guerre e nell’immediato secondo dopoguerra l’interpretazione complessiva da dare al nostro Risorgimento: da un lato i revisionisti Piero Gobetti [1901-1926] (liberalsocialista) e Antonio Gramsci [1891-1937] (marxista), che accusavano il ceto dirigente risorgimentale della mancata modernizzazione del Paese, dall’altro gli storici Federico Chabod [1901-1960] e Adolfo Omodeo [1889-1946] (entrambi d’ispirazione liberale), che ne difendevano l’operato, pur riconoscendone i limiti. L’alto livello culturale della polemica non è sufficiente a nascondere quello che fu l’intento politico che mosse i suoi iniziatori: propugnare la necessità di una nuova rivoluzione nazionale, liberale o socialista”.
Date queste precisazioni, nel caso di 1866: la grande truffa l’obiettivo del saggio è quello di promuovere un sentimento etnonazionalista veneto, screditando il Risorgimento tramite la critica al plebiscito del 1866. Non è sbagliato criticare il processo risorgimentale, come pure altri avvenimenti del passato, ma ogni giudizio storico dovrebbe fondarsi sull’onestà intellettuale, su dei dati oggettivi e sul rigore metodologico.
Beggiato sostiene che i veneti non abbiano preso parte al Risorgimento, ma che anzi, durante l’Ottocento, abbiano addirittura coltivato il desiderio di costruirsi un loro stato nazionale. Nell’ambito di un dibattito storico la scoperta di nuovi documenti può anche sconvolgere radicalmente le nostre conoscenze, ma la bibliografia di 1866: la grande truffa è composta esclusivamente da materiali già pubblicati altrove, nuovi sono semmai il lavoro di assemblaggio di testi già editi e le interpretazioni che ne vengono proposte, che però risultano errate e faziose.
Il libro nasconde costantemente il fatto che un grande numero di veneti partecipò al Risorgimento e a supporto delle sue tesi Beggiato non fornisce alcuna prova credibile.
Il primo grave sbaglio compiuto dall’autore è quello di far passare legittimisti asburgici e cattolici intransigenti per indipendentisti veneti ante litteram. Lo scrittore denuncia ad esempio che a Cavasagra, nel Trevigiano, un austriacante inneggiò all’Impero e venne rinchiuso nel carcere di Castelfranco, oppure che il prete di Coseano, don Antonio Riva (1806-1882), fu minacciato per aver incitato i suoi parrocchiani a votare contro l’annessione (da cui il nomignolo “Coseàn dal no”). Dal punto di vista storico questi due episodi sono certamente curiosi (e andrebbero adeguatamente approfonditi), ma in entrambi i casi i due individui non contrapposero alcun sentimento nazionalista veneto al nazionalismo italiano: si trattava rispettivamente di un legittimista e di un cattolico ostile al processo risorgimentale. Di Antonio Riva ci è pervenuta anche una breve lettera datata 9 giugno 1870, scritta da Majano del Friuli quando il sacerdote era «parroco quiescente di Coseano»; in questo messaggio il prete difese l’infallibilità del Papa contro gli attacchi dei suoi nemici e probabilmente tale missiva ci conferma anche quello che sempre fu l’unico obiettivo per cui il religioso impiegò tutte le sue forze: la difesa della Religione Cattolica e del Santo Padre.
Esponendo altri due casi di proteste Beggiato compie sempre lo stesso sbaglio. Egli riporta che a Crespignano d’Asolo (Crespignaga), durante le votazioni, venne strappato e calpestato il tricolore del seggio elettorale, mentre il giorno precedente erano stati imbrattati e staccati dai muri i bandi del plebiscito. Nello stesso seggio elettorale, davanti al commissario, alcuni uomini stracciarono e calpestarono le schede che recavano il “sì” all’annessione. A Caerano San Marco, invece, quattro contadini offesero la bandiera italiana.
Ambo gli avvenimenti sono significativi, ma in entrambi i casi nessuno dei ribelli fu mosso da sentimenti indipendentisti, bensì dall’odio verso il nuovo governo.
L’altro errore interpretativo attorno a cui ruota l’intero volume dedicato al 1866 consiste nell’idea che i plebisciti avessero una valenza uguale a quella dei moderni referendum:
“‘Pel SI voti 641.758, Pel NO voti 69, Nulli voti 273’. È stata sfiorata l’unanimità”
afferma Beggiato,
“nessuno mai, anche nei secoli successivi, sarebbe giunto a un risultato del genere: né Hitler, né Stalin...Tralasciando gli aspetti storici e culturali, c’è anche una sottolineatura statistica da fare: è provato che in una libera elezione, con un numero considerevole di votanti è praticamente impossibile arrivare a una simile percentuale”.
Su questo frangente il libro di Beggiato ha incontrato le severe critiche dello storico Mario Isnenghi:
“Per cominciare quasi 650 mila votanti non son pochi, per i tempi. Anzi. Ci furono pressioni e perfino dei trucchi? Può darsi: nella storia va tenuto conto del contesto. L’aspetto più importante però fu il principio, del tutto innovativo, di far votare la gente. Rispetto allo status quo vigente il plebiscito era così rivoluzionario che i difetti, in quella sorta di grande festa collettiva e happening politico, passano in secondo piano”.
Molto lucide sono anche le osservazioni sul plebiscito proposte da Piero Pasini:
“Il deficit di democraticità, il ristretto numero di votanti, il fatto che i plebisciti giungessero a “vidimare” una risoluzione già presa in sede diplomatica e che con il plebiscito il Veneto abbia “cambiato padrone”, sono tutte questioni che meritano di essere discusse ma che non vanno però affrontate interpretandole con le categorie odierne”.
Parrebbe che anche Molesini nel suo romanzo abbia commesso questo errore.
Fra l’attuale concetto di partecipazione alla vita politica e di espressione della volontà popolare e i plebisciti ottocenteschi c’è un abisso. Come ricorda Pasini, non si può invocare la democrazia quando la gran parte delle masse contadine versava in uno stato di ignoranza, ma
“Allo stesso tempo non si può non riconoscere che i plebisciti furono l’espressione di un grande principio radicalmente innovativo”.
Sia pur concettualmente e simbolicamente, le votazioni rappresentarono un cambiamento epocale.
In ogni caso, 1866: la grande truffa è un libro che ha fatto molto parlare di sé sui giornali e si potrebbe anche ipotizzare che Molesini non lo abbia letto, ma che sia solo venuto a conoscenza delle teorie in esso contenute.
Questo articolo non è che una riflessione ipotetica fondata su alcune supposizioni e può anche darsi che l’intero ragionamento non sia che il frutto delle suggestioni di chi scrive, ma è sempre un esercizio stimolante quello di provare a indagare come le interpretazioni posteriori influenzino le ricostruzioni del passato presentate nei romanzi storici, in fondo questo fenomeno conferma la veridicità di una nota frase di Benedetto Croce (1866-1952):
“ogni vera storia è storia contemporanea”.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La possibile influenza del revisionismo storico nel romanzo “Non tutti i bastardi sono di Vienna” di Andrea Molesini
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