Il Conte Ugolino è uno dei personaggi più memorabili della Divina Commedia, la sua storia è agghiacciante e ancora ci fa rabbrividire proprio perché i fatti narrati sono realmente accaduti e dunque non sono relegabili all’ambito astratto della pura letteratura.
Direttamente dall’Alto Medioevo ci giunge una horror story capace di sfidare persino la brillante inventiva dei maestri del brivido; ma che nessuno come il Sommo Poeta ha saputo raccontare tanto bene, ammantandola di una vena ineludibile di pietà e di un controcanto ineffabile di disperazione.
L’incontro tra Dante Alighieri e il Conte Ugolino della Gherardesca avviene nel trentatreesimo canto dell’Inferno. Si tratta di una scena oscura, efferata, brutale e al contempo carica di una dose sconfinata di umanità: Dante ci descrive ciò che a tutti gli effetti è un atto di cannibalismo eppure, alla luce della triste storia narrata dall’anima dannata, il lettore infine non prova orrore, ma viene investito da un acuto senso di compassione.
A raffigurare il Conte cannibale nell’arte è stato Auguste Rodin con la monumentale scultura La porta dell’inferno, visitabile al Musée Rodin di Parigi, in cui l’Inferno di Dante lascia il mondo dei demoni per entrare in quello dell’uomo, proprio come la storia del Conte Ugolino.
Il Conte Ugolino narrato da Dante
Nel Canto XXXII - XXXIII dell’Inferno Dante ci descrive una scena a dir poco raccapricciante. Il poeta, accompagnato dalla sua guida Virgilio, si trova nel nono cerchio, nella zona detta “Antenora” che ospita i cosiddetti “traditori della patria”. Tutte le anime sono immerse in un lago ghiacciato, il Cocito e lì, tremanti di freddo, sopportano la loro terribile pena.
Nel Canto XXXII tra queste anime perdute Dante ne scorge una che cattura subito la sua attenzione perché rivela un atteggiamento a dir poco inquietante. Il poeta vede nel fondo del lago un uomo che sta mangiando la nuca di un altro uomo e lo descrive in un paio di strofe memorabili.
e come ’l pan per fame si manduca,
così ’l sovran li denti a l’altro pose
là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca.
Come si mangia il pane per fame, scrive Dante in un’agghiacciante similitudine, così quello che stava sopra addentava il capo dell’altro, proprio nel punto in cui il cervello si congiunge con il midollo spinale.
Quell’anima dannata è il Conte Ugolino della Gherardesca e ciò che davvero fa rabbrividire è che ciò che racconta a Dante è una storia vera. Il poeta, come di consueto, gli si avvicina e domanda al dannato di parlare, così che possa comprendere la “ragione” di quell’atto bestiale. Ha inizio così il XXXIII Canto dell’Inferno.
Ma, prima di iniziare il suo discorso, Ugolino viene descritto in un atto mostruoso: ecco che smette di divorare il cranio che sta addentando e solleva il proprio sguardo smarrito verso il Poeta, pulendosi le labbra con i capelli della testa che costituisce il suo “pasto” che Dante non a caso definisce con un latinismo “fiero” con un rimando agli atteggiamenti bestiali, quindi disumani.
Solo dopo aver compiuto questo gesto inizia a parlare ed è subito chiaro che la sua storia è scavata nel profondo da un dolore innominabile.
Allora quello sollevò la bocca dal suo fiero pasto,
pulendola coi capelli di quel capo
ch’egli aveva guastato sulla nuca.E cominciò a parlare: “Tu vuoi ch’io ricordi
il dolore disperato che m’opprime già il cuore
solo a pensarci, prima ancora di parlarne.”
Dal racconto di Ugolino veniamo a sapere che il teschio che il Conte sta sbranando è quello del suo aguzzino, il Vescovo Ruggieri che lo fece imprigionare in una torre e morire di fame insieme ai suoi figli. Ecco dunque che i ruoli di vittima e carnefice si ribaltano e, nel finale, il lettore prova una sincera pietà per quel dannato che lo aveva dapprima spaventato nel suo atteggiamento bestiale. Il vero “mostro” della storia non è Ugolino, ma il Vescovo che ora viene sbranato dal Conte per l’eternità nel fondo del lago ghiacciato.
Dante rimase molto toccato dalla triste storia del Conte Ugolino e ne La Divina Commedia ne dà una lettura singolare che sarebbe stata tramandata ai posteri, riscattando la famiglia della Gherardesca dall’oblio. Il Poeta si sofferma in particolare sulla terribile morte di Ugolino che nel testo viene persino anticipata da un sogno premonitore, una sorta di orrendo flash-forward: nel sonno Ugolino vede un lupo e i suoi piccoli, durante una battuta di caccia, che vengono sbranati da una muta di cani affamati. Il giorno seguente Ugolino e i suoi figli furono imprigionati nella torre la cui chiave fu gettata nell’Arno.
Secondo gli storici Ugolino morì di inedia, ma è stato proprio Dante a raffigurare i suoi ultimi istanti in termini orrorifici, immaginando che i figli morenti supplichino il padre di mangiare le loro carni per sopravvivere.
Padre, assai ci fia men doglia se tu mangi di noi: tu ne vestisti queste misere carni, or tu le spoglia.
I figli gli dicono, testuali parole: “Padre tu ci hai dato queste misere carni, quindi tu puoi anche privarcene”. Attenzione Dante, però, non ci dice se Ugolino abbia mangiato o meno le carni dei suoi figli, lascia il sospetto sospeso mentre aleggia nell’aria come una domanda inquietante, senza risposta. Il Conte potrebbe essersi cibato dei suoi figli, così come potrebbe non averlo fatto ed essere semplicemente morto di fame dopo aver assistito impotente alla straziante morte di ciascuno di loro. In compenso sappiamo, questo Dante lo scrive, che Ugolino si morse entrambe le mani tranciandosi le dita, “ambo le man per lo dolor mi morsi” , ragione per cui spesso viene raffigurato nelle sculture e nei dipinti nell’atto di mordersi tormentosamente le mani. Forse il vero atto di cannibalismo il Conte, in realtà, l’ha rivolto verso sé stesso.
I lettori della Divina Commedia negli anni hanno preferito la versione del “conte Cannibale”, forse suggestionati dalla raccapricciante scena iniziale in cui Ugolino divora il teschio conficcandoci i denti?
Ma come andarono realmente le cose? Qual è la vera storia del Conte Ugolino?
La vera storia del Conte Ugolino della Gherardesca
Ugolino della Gherardesca fu una figura di primo piano nella Toscana del Duecento. Nacque a Pisa attorno al 1220. Era il discendente di una nobile casata di origine longobarda. La sua colpa, la ragione per cui Dante lo inserisce nella cerchia dei “traditori della patria”, è che la sua casata apparteneva per tradizione alla fazione Ghibellina, ma lui decise di passare alla parte Guelfa. E negli anni, sostenuto dall’amico e genero Giovanni Visconti, capeggiò una serie di disordini contro il Podestà imperiale di Pisa. Nel 1284 fu eletto a sua volta Podestà di Pisa e, due anni dopo, divenne Capitano del Popolo. Ma alla sua ascesa politica seguì un altrettanto inevitabile declino. Della Gherardesca cercò di ingraziarsi gli oppositori, facendo persino rientrare a Pisa alcune delle famiglie ghibelline esiliate, tra cui quella dei Gualandi. Si attirò, però, l’ostilità dell’arcivescovo Ruggieri con cui si rifiutò di concludere delle trattative diplomatiche. A esacerbare le ostilità fu poi l’uccisione di Farinata di Pisa, il nipote dell’arcivescovo, da parte di Ugolino che in quegli anni si trovava attaccato su molteplici fronti dalle crescenti minacce avversarie.
Il Conte si trovava rifugiato nel suo castello di Settimo quando fu richiamato dall’arcivescovo con la promessa di un accordo. Ugolino fece l’errore fatale di rientrare a Pisa, convinto che la rivolta popolare fosse ormai sedata, e di non correre rischi. Ruggieri invece gli aveva teso una trappola. La sommossa si rivolge contro di lui e, il 1 luglio 1288, il Conte viene imprigionato insieme ai figli e ai nipoti nella Torre della Muda - oggi parte del Palazzo dell’Orologio - di proprietà della famiglia Gualandi. Leggenda narra che la chiave fu gettata nell’Arno.
Oggi la torre, raffigurata oscuramente diroccata in alcuni dipinti e in un’incisione del 1865 di Giovanni Paolo Lasinio, è conosciuta anche con il nome di “Torre della Fame”.
La morte del Conte Ugolino
Pare che Ugolino, i suoi figli e nipoti, morirono di inedia dopo una settimana di prigionia. Anche se una leggenda vuole che, attraverso un atto d’astuzia, il Conte fece vestire i figli con gli abiti della servitù e permise loro di scappare.
Dopo la sua triste morte la dimora di Ugolino, situata sul Lungarno, venne abbattuta e, come per un rito superstizioso, sul terreno venne sparso del sale e fu proibita la costruzione di qualsiasi altro edificio.
I fatti storici, però, ci narrano una versione diversa da quella raccontata da Dante nella Divina Commedia. Pare che, quando fu imprigionato, il Conte Ugolino avesse superato la settantina e fosse ormai senza denti; un particolare che rende poco probabile un suo eventuale atto di cannibalismo.
A confermarlo sono state inoltre le analisi dell’anatomopatologo Francesco Mallegni,docente di Paleoantropologia all’Università di Pisa, che nel 2002 ha analizzato i resti quelli che dovrebbero essere Ugolino e i suoi figli Gaddo e Uguccione e i nipoti Anselmo e Nino.
Secondo la ricostruzione del professor Mallegni, il Conte sarebbe morto di inedia e non si trovano nel suo scheletro tracce di magnesio, che sarebbero compatibili con l’assunzione di carne nei giorni precedenti alla morte.
Il mito del Conte cannibale è dunque una leggenda, perpetrata da Dante nella sua Commedia , in cui il Sommo Poeta rivela un certo gusto del macabro, che tuttavia ben si combina con il lirismo della scrittura. Secondo l’indagine di Mallegni inoltre i nipoti di Ugolino non erano propriamente dei bambini - come ci lascia invece intendere il Poeta - ma i loro erano scheletri di uomini adulti, di età compresa tra i venti e i trent’anni. Forse Dante aveva un certo interesse nel rendere truce il suo racconto oppure fu suggestionato dalle diverse leggende e superstizioni in voga nella Toscana dell’epoca.
La scena descritta nel Canto XXXII-XXXIII dell’Inferno dantesco a ogni modo rimane incisa in maniera indelebile nella memoria di ogni lettore. Senza quell’orribile teschio tra le mani, non c’è dubbio, Ugolino non sarebbe Ugolino; forse ci commuoverebbe persino di meno.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La vera storia del Conte Ugolino: la parte horror della Divina Commedia
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