Annuario govoniano di critica e luoghi letterari
- Autore: Matteo Bianchi (a cura di)
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2020
Talvolta la terra di poeti per antonomasia, la nostra, soffre di perdite di memoria e dimentica oppure oscura i suoi artisti migliori. È accaduto al ferrarese Corrado Govoni (1884-1965), verseggiatore di alta levatura, nelle antologie posto ingiustamente tra i crepuscolari minori. Ben venga dunque Annuario govoniano di critica e luoghi letterari di autori vari, edito da Otto/Novecento (2020, pp. 218) e curato con puntigliosa e devota attenzione dal giovane poeta e critico Matteo Bianchi, anche lui di Ferrara.
Il volume non vuole essere soltanto una rivalutazione culturale del territorio, alveo di grande storia e patria di grandi artisti; già questa operazione anamnestica sarebbe un notevole merito, nel ridare volto e anima ai luoghi che vivono di storia sempre viva, alla "piccola patria", “Heimat” tanto cara a Hermann Hesse. Il lavoro a più mani, florilegio di saggi ciascuno dedicato a un aspetto della poetica e dello stile dell’autore, vuole essere un contributo all’identità della poesia, al suo essere profondo e non alienabile, in un tempo, il nostro, impoetico, soggiacente alle ferree leggi del mercato, nel quale non soltanto Dio è morto (lo grida disperatamente un pazzo, scrive Nietzsche con la nota metafora, pazzo che si agita appunto nel mercato), ma rischia di morire anche la poesia.
L’intento è di dissotterrare Govoni, toglierlo dal luogo oscuro dell’Ade e riportarlo negli Elisi insieme al canto imperituro di Orfeo. Alcuni testi sono ripresi da un altro lavoro consimile, uscito per il cinquantenario della morte del poeta. E chi sia stato lo disse con chiarezza Montale nel suo Quaderno genovese:
"Giunse il ’Govoni’: Inaugurazione della primavera, dove trovo meraviglie di poesia nuova e autentica. Costui è grande.”
Possiamo attraversare la sua vita sofferta e approcciarci all’opera nelle belle pagine a firma di Francesco Targhetta (prefatore), Danila Cannamela, Claudio Cazzola, Paolo Maccari, Diego Marani, Matteo Pazzi, Edoardo Penoncini, Antonio Pietropaoli, Paolo Ruffilli, Roberto Pazzi, Peter Robinson che traduce i testi in inglese per il pubblico americano. Pagine che incuriosiscono l’esperto, lo studente, il letterato, ma pure l’uomo comune in cerca di se stesso, specchiantesi in un altro. Tanto è possibile riguardo al messaggero Govoni, in quanto il suo tratto saliente è la capacità di adottare un registro oggettivo, di riprodurre, fare (“poien” come recita l’etimo greco) il mondo, vederlo com’è senza l’interferenza dell’io, lasciandolo fiammeggiare con parole ardenti. Govoni è fiammeggiante e come tale "sefir", serafino. Ricordiamo l’energia cosmica "fuoco" di Eraclito.
Partendo dal Decadentismo Corrado Govoni si è avvicinato a tutte le correnti letterarie del secolo scorso (Futurismo, Crepuscolarismo, Dadaismo... ma gli "ismi" si lasciano scrivere), amico stretto di illustri personaggi quali de Pisis, de Chirico e Savinio, per essi punto di riferimento e faro fin dalla giovinezza. Avvicinato ma non assimilabile, in quanto unico. Forse, anzi senza forse, pagò la sua dolce e solitaria anarchia con l’esclusione e l’oblio. Per essere poeta dovette anche vendere i suoi beni. Ne dà testimonianza egli stesso in un quadretto allegorico delizioso, ma pure drammatico, nel quale si rivolge alla poesia, sposandola per sempre:
“Tu comprendesti subito con chi avevi a che fare, e mi abbandonasti la bocca scottante. Poi mi invitasti a bere nel dolce tubo vegetale, e per pegno della promessa e patto di eterna unione, mi infilasti in un dito l’anello di un filo d’erba con una pietra di rugiada: io ti annodai all’anulare una paglia: la vera d’oro delle spose
contadine. […] Non sono stato costretto a vendere per te i miei campi, la mia casa?”
Vorrei ancora sottolineare l’oggettività, espressa con la tendenza all’elencazione di "cose", situazioni e immagini, come accade nella lirica Le cose che fanno la domenica e in molte altre. L’aspetto sovrapersonale insito in questa caratteristica avvicina Govoni a Borges, anch’egli incline a elencare per dire e poetare con la massima intensità, che si attua nel mostrare. Dio stesso induce Giobbe a guardare.
L’elemento di "realismo magico" unito a sacro stupore è presente in tutta l’opera di Govoni, sottolinea Matteo Bianchi; tale magia è tipica del mondo agreste, “substantia” elemento primario dei testi del Poeta, da cui mai si discosta. Campagna e Natura, topos e radicale appartenenza, fine di ogni alienazione urbana, (anche nella Bibbia il contrasto città/campagna possiede gli stessi toni di contrapposizione bene/male), così come lo è in Grazia Deledda, altra artista dimenticata e relegata nel regionalismo, pur essendo un premio Nobel.
Possiamo sentire nel filone naturalistico un tratto ecologista "ante litteram", non dichiarato dati i tempi ma antesignano del ritorno alla campagna, oggi auspicato e spesso praticato da persone e comunità lungimiranti.
L’aspetto crepuscolare dell’artista non si restringe a una corrente o stato d’animo rinunciatario alla vita, tutt’altro. Va a scavare gli aspetti in ombra (ancora una volta è Borges l’accostamento più congruo, con il suo Elogio dell’ombra) e ipersensibilità che ce lo rendono estremamente caro. Egli esprime quella "povertà di spirito" evangelica tipica degli eletti, grandezza in un mondo altro e capovolto, il Regno che sempre viene e mai viene.
Paolo Ruffilli sottolinea la “potente sessualità” di Govoni, accostandolo a Pascoli e naturalmente a D’Annunzio, come nel sonetto Cleopatra che termina con la terzina:
“Ed il mio caro pube saccheggiato / è un prezioso e rorido ciborio / che trabocca d’odore di peccato.”
O nella poesia Fame di carne:
“O Signora da gli occhi sfolgoranti / e da la carne morbida e in fiore, / deh concedi i tuoi labri provocanti / al poeta che langue d’amore!”
Le piccole immense cose quotidiane, come nei distici di Crepuscolo ferrarese:
“Il mao si stira sopra il davanzale / sbadigliando nel vetro lagrimale. / Nella muscosa pentola d’argilla / il geranio rinfresca i fiori lilla. / La tenda della camera sciorina / le sue rose di fine mussolina. / I ritratti che sanno tante storie /son disposti a ventaglio di memorie.”
Sono vicine al cuore e indelebili, così “secondarie” e minime e invece costituenti il tessuto fitto dei giorni caduchi; sono quelle che apparentano chiunque alla sua poetica. Per coglierle, le cose, con tanta limpidezza, innocenza e felicità è necessario abbeverarsi alle fonti del monte Elicona. A pochi è concesso, forse soltanto ai puri, appartati come Govoni, che tutto si è dato alla perenne innamorata, la poesia, a cui chiede polvere di ali di farfalle stellate da portare, in modo surreale, legata al collo, dono rubato al tempo, durata effimera dei lepidotteri meravigliosi, tempo della nonna morta, ma presente:
“E mandami un sacchettino di polvere raschiata dalle ali stellate delle vanesse notturne; ch’io lo metta al collo come un amuleto, legato al filo di canepa insieme alla pazienza di lana che racchiude la croce di cera benedetta, e al piccolo caro Sant’Antonio cretino, d’osso bianco rigato di blu: ricordo della nonna morta; o santa verde.”
Raffinatissimo e popolare, contraddittorio, ironico e fragile con quel “Sant’Antonio cretino”, ricordo irrinunciabile.
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