Bhagavad Gita
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- Genere: Religioni
Bhagavad Gita significa "Canto del Beato". Questo testo sacro per la spiritualità indiana rappresenta ciò che per noi occidentali è la Bibbia. Dirne in modo completo non è possibile, non basterebbero molti volumi di commenti, che però in genere sono diretti all’intelletto discorsivo. Non è questa la destinazione dei libri sacri: essi si rivolgono al "cuore", al centro dell’essere. In tal senso anche poche parole possono essere utili e preziose, aprono la mente alla comprensione se puntano al "cuore", non con sentimentalismo ma con sapienza, in modo da essere "gustate", assaporate. Il riferimento al gusto non è una metafora casuale, in quanto il termine "sapienza" deriva dal latino "sàpere", gustare.
Con tale intento, e in tutta umiltà, scrivo alcune brevi considerazioni sul testo Bhagavad Gita tradotto e curato da Yogi Ramacharaka (Napoleone editore, 1971), un libro ormai raro (del volume esistono più recenti edizioni con altre curatele), con l’ottima prefazione di Franca Avvisati. Avvisati si preoccupa di spiegare le radici di una spiritualità millenaria che si è ormai avvicinata grandemente alla nostra; raffronta l’Induismo con il Cristianesimo con visione ecumenica, sempre più necessaria al nostro tempo disorientato, diffusamente ateo e/o agnostico.
Beato è colui che conosce il proprio essere, l’anima, come entità eterna, esente da morte, unita al divino cosmico. Si legge nel secondo canto:
"L’Assoluto, che è in ogni cosa, è inesauribile, eterno, illimitato, indistruttibile. E non è possibile annientare ciò che non può finire. I corpi, nei quali vive l’anima, sono finiti e passeggeri: non rappresentano assolutamente il Vero Uomo. Lasciamoli andare: muoiono così come muore tutto ciò che è finito. O principe dei Pandu, animo, corri alla lotta, adesso che sai il vero! Colui che pensa sia esso ad uccidere, e colui che pensa sia esso ad essere ucciso, parla come un bambino inesperto. In verità nessuno uccide e nessuno è ucciso. Sappi dunque questo, o principe: l’uomo vero, lo spirito dell’uomo non è nato e non può morire. Non nato, perpetuo, eterno, antico, esiste ed esisterà sempre. Anche se il corpo è distrutto completamente colui che l’ha occupato è indistruttibile”.
“Come un uomo, deponendo i vecchi abiti, ne prende altri nuovi, così lo spirito, lasciando i vecchi corpi mortali entra in altri nuovi e pronti ad accoglierlo”.
Il riferimento è alla reincarnazione. Tali affermazioni sono apodittiche, non necessitano di spiegazioni razionali. È Dio che parla all’uomo, al principe Arjuna che deve combattere contro i nemici, tra i quali si trovano numerosi suoi parenti e amici. L’episodio guerresco narra la lotta tra due fazioni, i Pandava e i Kaurava, etnie originate da due fratelli. Si trova inserito nel grande poema Mahabharata, sul quale è stato girato un film da Peter Brook nel 1990, con Vittorio Mezzogiorno protagonista. Il lavoro nasce a teatro e viene rappresentato nel 1885. Peter Brook dedica ben 7 anni alla stesura del testo.
La voce superiore che istruisce il principe rappresenta il Sé (inteso come Atman, principio individuato di Brahman, cosmico e Assoluto, e pure inteso in senso junghiano). Non si tratta di un’autorità esterna, ma di quella potenza interiore che ogni uomo è chiamato a ricercare, seguendo la propria via di "canoscenza", come esorta Ulisse nel canto di Dante.
Krishna scende nel carro che Arjuna sta guidando, pieno di perplessità, angoscia, tristezza nel dover condurre la guerra fratricida. Il simbolo del carro come nostro corpo materiale è un’immagine universale, ripresa da Platone. I cavalli rappresentano le nostre passioni da dirigere, ma l’uomo razionale da sé non sa procedere, è necessaria la presenza del Dio (l’intuizione) per comprendere, conoscersi e di conseguenza agire. Anche la guerra non è che allegoria dei tumulti interiori. Questi vengono placati con l’esercizio dell’equidistanza da piacere e dolore, tema caro agli epicurei come agli gnostici, ai mistici cristiani, o a filosofi come Schopenhauer:
"O Principe, impara a sopportare con fermezza, con coraggio e con pazienza, perché l’uomo veramente saggio non è turbato né dal piacere né dal dolore; soltanto l’uomo per cui piacere e dolore sono uguali, è degno di immortalità”.
Si tratta di un’immortalità da costruire, raggiungere attraverso l’autoconsapevolezza e l’esercizio della virtù. Anche san Francesco nel noto Cantico delle creature nomina la “seconda morte” che toccherebbe all’uomo involuto e avvolto dal “peccato”. Ma per l’Oriente, rinascendo, si offrono all’essere umano innumerevoli possibilità di autorealizzazione. Giova qui ricordare il detto esoterico: “Lo Spirito è dove conosce”, che ricalca Paolo: “Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui?” (1 Cor. 2,11).
Insieme a insegnamenti metafisici, alla visione grandiosa del trascorrere e perire sul piano materiale, nella quale Krishna rivela se stesso come un’immensa bocca che inghiotte, il libro contiene i lineamenti di filosofia morale. I vari aspetti sono tutti legati al tema centrale dell’immortalità dell’anima.
Tutto è colore, immagine, movimento, passione unita alla meditazione. In una parola: è mito ed è arte, grande arte e potere immaginativo.
Nel tempo Covid del nostro restare ritirati in casa, il Canto del Beato diventa una compagnia, la migliore, perché conduce in intimità con noi stessi, con la nostra parte, meglio sarebbe dire con l’intero atomico spirituale indefettibile e indivisibile, da cui tutto promana, che non teme la morte, trascesa nello splendore dell’eterno.
L'essenza della Bhagavad Gita. Commentata da Paramhansa Yogananda
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