Maggio è caro al poeta Giovanni Pascoli, lo dimostrano le numerose liriche dedicate a questo mese in cui la primavera trionfa, dall’ode alla natura ricca di simbolismi e analogie di È maggio, all’idillio bucolico di Chiesa di maggio sino alla calorosa accoglienza del poemetto Calendimaggio che riprende lo schema classico della ballata Ben venga maggio del Poliziano.
Nella poesia italiana otto-novecentesca si assiste a un vero e proprio recupero delle ballate di Poliziano che rientrano nel recupero della tradizione rinascimentale in atto in quel periodo: i versi di Poliziano vengono ripresi da Gabriele d’Annunzio, Giosuè Carducci e, infine, anche da Giovanni Pascoli che non se ne serve come pura “immagine estetizzante” ma, invece, li fa risorgere in un’ode senza tempo al mese di maggio che oggi giunge sino a noi con una vibrazione autentica.
Il Calendimaggio era un’antica festa di origine pagana che si celebrava come rito propizionatorio per l’annuncio della primavera nel primo giorno di maggio. Derivava dalla festività celtica detta “Beltane”, tenutasi tra l’equinozio di primavera e il solstizio d’estate, in cui si celebrava il matrimonio tra la dea del fuoco Belisama e il suo sposo Belenus, dio della guarigione e della luce. Era una ricorrenza all’insegna della purificazione e della rinascita, in cui si liberava una sorta di energia vitale. L’idea della stagione dell’amore si sviluppò anche in seguito a questo rituale in cui maggio diventava il mese ideale per i fidanzamenti e le unioni. Per l’occasione veniva tagliato un albero e trasportato al centro di una piazza, dove veniva adornato con rami fioriti e nastri e, attorno ad esso usato come palo, le fanciulle in età da marito danzavano e i “maggianti” (così si chiamavano coloro che aderivano alla tradizione) intonavano canti, filastrocche e stornelli. Pare che la danza attorno al palo del Calendimaggio fosse un’eredità dello sciamanismo e, al contempo, un rito volto ad attrarre la fertilità.
L’idea pagana del Calendimaggio - una festa che venne celebrata sino al Rinascimento e, ancora, viene ricordata tramite rievocazioni in diverse località d’Europa - viene ripresa da Giovanni Pascoli nella sua lirica contenuta nella raccolta varia dei Poemetti. Dal 1896.
Nel testo, Pascoli fa specifico riferimento al gonfalon selvaggio, ovvero al ramoscello fiorito che nel Calendimaggio era inteso come simbolo agreste dell’amore.
Scopriamone testo, analisi e commento.
“Calendimaggio” di Giovanni Pascoli: testo
Ben venga Maggio
e il gonfalon selvaggio!
Ma è una selva che si svelle,
la selva che da sè si schianta!
E viene, e seco ha le procelle
che l’hanno nell’inverno affranta,
e viene e canta
il gonfalon selvaggio!Ben venga con la sua grande ombra
e col grande urlo dei torrenti!
È vivo il gonfalon che ingombra
la terra e si svincola ai venti;
ed ai dormenti
annunzia: È Maggio! È Maggio!Ben venga Maggio
e il gonfalon selvaggio!
S’avanza sotto il cielo azzurro
il verde bosco che s’è mosso;
ha dentro un cupo suo sussurro,
ha dentro un rauco fiato grosso.
È rosso rosso
il gonfalon selvaggio!Ben venga! È gente che sui capi
solleva il ramuscel d’ulivo;
e quel sussurro è ronzìo d’api
seguenti il ramo fuggitivo;
e il rosso vivo
è dei rosai di Maggio!Ben venga Maggio
e il gonfalon selvaggio!
“Calendimaggio” di Giovanni Pascoli: analisi e commento
Il tono del poemetto di Pascoli è trionfale e ricalca lo schema della ballata di Angelo Poliziano che, a sua volta, faceva proprio il Trionfo di Bacco e Arianna di Lorenzo de’ Medici. C’è una tematica che unisce e intreccia tutte queste: l’invito è a godere i piaceri e dell’amore, l’elogio della giovinezza e il carpe diem, ovvero l’esortazione a cogliere l’attimo e a non lasciarselo sfuggire.
Il mese di maggio è rappresentato dal “gonfalon selvaggio”, emblema della primavera e dell’amore, ma anche del desiderio erotico. Nei versi di Pascoli il “gonfalone” viene inteso anche nella sua prima accezione di vessillo o di stendardo militare, in quanto si fa annunciatore della primavera che avanza.
La primavera annunciata da Pascoli è infatti violenta come una rivoluzione: assistiamo a una selva che si “svelle”, ovvero si sradica da sé stessa e diventa quell’albero tagliato che i giovani portano nel centro della piazza per celebrare il rito propiziatorio. Quell’albero sradicato ha in sé il ricordo delle “procelle” (Pascoli lo dice con un latinismo, ma si tratta delle “tempeste”) e si fa vivo, viene personificato come simbolo della rinascita della terra. Attorno all’albero diventato palo, intanto, si iniziano a celebrare i riti della festività: gli uomini e le donne hanno il capo ornato di fiori, stringono in mano ramoscelli d’ulivo. L’albero si fa portatore di un annunzio:
“È Maggio! È Maggio!”
L’uso dell’invocazione non è casuale, Pascoli se ne serve come di un incitamento o di una preghiera, i versi sono attraversati da una specie di corrente che diventa metafora del risveglio della natura e dei sensi che il poeta si propone di raccontare.
Tutta la natura sembra rispondere a un richiamo di vita che Pascoli racchiude in immagini sinestetiche vibranti - come il ronzio delle api - e sull’accostamento con i colori brillanti, come se le cose fossero definite e ravvivate dal loro aspetto e dalla loro lucente immagine esteriore: il “verde bosco”, il “cielo azzurro”, infine il “rosso” che solo nel finale viene rivelato.
Il “gonfalon selvaggio” infine si fa metafora del rosso vivo dei roseti che, in maggio, raggiungono la propria massima fioritura diventando la metafora per eccellenza di questo mese, conosciuto non a caso come il “mese delle rose.”
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Calendimaggio” di Giovanni Pascoli: il benvenuto a maggio in poesia
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