Capitalismo contro capitalismo. La sfida che deciderà il nostro futuro
- Autore: Branko Milanovic
- Genere: Politica ed economia
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Laterza
- Anno di pubblicazione: 2020
Quale sarà il futuro del capitalismo? La questione oggi è ineludibile e la affronta nel suo ultimo lavoro lo studioso serbo-americano Branko Milanovic, già Lead Economist del dipartimento di ricerca della Banca Mondiale e attento indagatore della disuguaglianza. In Capitalismo contro capitalismo. La sfida che deciderà il nostro futuro, nelle librerie italiane (solo) dal 22 ottobre scorso, per merito degli Editori Laterza di Bari (pp. 316, traduzione italiana di Daria Cavallini; edizione originale Capitalism, alone. The future of the system that rules the world edita nel maggio 2019 da Harvard University Press), Milanovic giunge a una risposta, o meglio a individuare i fattori da cui potrebbe dipendere una risposta, all’esito di una trattazione articolata in cinque grandi capitoli e condotta con l’occhio dell’economista e l’attenzione del sociologo, a tratti anche con il respiro dello storico.
Milanovic parte dalla constatazione che ovunque nel mondo sviluppato si è imposto un sistema di produzione capitalistico, vale a dire organizzato a scopo di lucro, a proprietà privata del capitale e lavoro salariato legalmente libero e con decisioni sulla produzione e sui prezzi prevalentemente decentrate. Un sistema connotato, da un punto di vista sociologico, da una forte ideologia del profitto individuale radicata nella società. Milanovic si sofferma sul riavvicinamento, iniziato dopo la seconda guerra mondiale, tra il sistema economico europeo-nordamericano e quello asiatico, nel quale il modello capitalistico si è affermato solo negli ultimi decenni. L’economista serbo-americano entra nel vivo della questione con la descrizione dei due modelli di capitalismo che considera oggi egemoni nel mondo: il capitalismo che definisce liberal-meritocratico e il capitalismo politico.
Milanovic descrive il primo modello, quello del capitalismo liberal-meritocratico, come evoluzione storica del capitalismo classico (diffuso nel Regno Unito dalla prima rivoluzione industriale fino alla vigilia della prima guerra mondiale) e poi di quello social-democratico (diffuso in Europa e negli Stati Uniti dopo il 1945). Nella definizione di Milanovic l’aggettivo meritocratico non è utilizzato in un’accezione positiva, ma descrive un sistema sociale rimesso esclusivamente o quasi al mercato, nel quale non vi sono ostacoli giuridico-formali che impediscano agli individui di raggiungere una posizione elevata nel sistema — qui Milanovic mutua dichiaratamente la terminologia di John Rawls, il celebre filosofo politico e del diritto di Harvard che in A Theory of Justice del 1971 teorizzò un liberalismo aperto alle esigenze dello stato sociale: il liberalismo “meritocratico” nel senso rawlsiano adottato da Milanovic è dunque un sistema di pura “uguaglianza meritocratica”, in un regime di libertà naturale in cui le carriere sono aperte ai talenti, ma nel quale mancano, o sono ridotte al minimo, le condizioni di uguaglianza sostanziale.
Di questo modello di capitalismo meritocratico tratteggiato da Milanovic diremo subito che si tratta di un modello di stampo tradizionalmente anglosassone, prevalentemente nordamericano. È più difficile leggerlo come paradigma della complessa realtà europea, e italiana in particolare, nelle quali i sistemi economici paiono ancora connotati da tratti socialdemocratici. Ma Milanovic, come vedremo, non ha preoccupazioni geografiche, il suo interesse e la cifra del suo lavoro sono i modelli e le loro potenzialità: e si comprende subito che l’interesse dello studioso serbo-americano per il modello liberal-meritocratico è indubbiamente (e fecondamente) critico, votato a indagare le debolezze del modello e le loro possibili conseguenze.
Il problema fondamentale del capitalismo liberale nordamericano per Milanovic è la disuguaglianza, che lo studioso discute in sessanta severe ma documentate pagine (pregio del libro di Milanovic è la tracciabilità delle fonti, affidata a un apparato bibliografico e di citazioni quali- e quantitative che dovrebbe consentire anche al lettore più tecnico ampie possibilità di verifica e confutazione). In via di estrema e incompleta sintesi, per Milanovic il fattore responsabile della disuguaglianza endemica nel capitalismo liberal meritocratico sarebbe rappresentato dalla quota crescente dei redditi di capitale rispetto alla quota dei redditi da lavoro all’interno del reddito nazionale netto dei paesi più sviluppati. La naturale distribuzione ineguale del capitale e la sua elevata concentrazione, insieme alla rilevata crescita del peso relativo del reddito da esso derivante, all’interno del reddito nazionale, sono per Milanovic i fattori responsabili dell’incremento della disuguaglianza.
Ma la disuguaglianza, nei sistemi liberali, appare oggi a Milanovic moltiplicata anche da fattori recenti, che potremmo definire acceleratori, quali l’omoplutia (la tendenza a riscontrare in capo ai medesimi individui facenti parte della nuova classe capitalistica il cumulo di elevati redditi di capitale con elevati redditi da lavoro), l’omogamia (la tendenza, anch’essa recente, all’unione matrimoniale tra maschi ad alto reddito e donne ad alto reddito, registrata come conseguenza dei più elevati livelli di istruzione e di posizione lavorativa raggiunti dalle donne negli ultimi cinquant’anni) e una ridotta mobilità intergenerazionale relativa (correlazione tra posizioni di reddito relative di genitori e figli) e assoluta.
Per contro, la disuguaglianza e la polarizzazione degli individui non sarebbero oggi più significativamente ostacolate, nei sistemi liberali “meritocratici”, da alcune tradizionali leve di politica fiscale e sociale che, per varie ragioni, si sarebbero fortemente indebolite negli ultimi anni. Su quest’ultimo aspetto, volendo lasciare al lettore il gusto della scoperta, possiamo solo dire che Milanovic presenta letture certamente non ideologiche del problema dei flussi migratori e conseguenti proposte che, come ha scritto Michele Salvati su “La Lettura” del 18 ottobre, “lasceranno perplessi e insoddisfatti sia i nazionalisti sia chi è vicino alle idee e ai sentimenti di papa Francesco”.
La risultante delle forze descritte dal Milanovic economista è una crescente esasperazione delle disparità di reddito e della polarizzazione della società, sempre più divisa tra un’élite definita alto-borghese e una base (in cui probabilmente Milanovic raggrupperebbe tutte le restanti classi, dalla borghesia medio-piccola in giù) sempre più estesa e tendenzialmente impoverita.
La severa analisi di questo capitalismo polarizzante si conclude con la descrizione delle leve di conquista del potere politico e di autoperpetuazione della descritta élite alto borghese, che sono rappresentate, secondo lo studioso nativo di Belgrado, dal finanziamento della politica e dalla conseguente capacità di influenzarne le principali decisioni, oltre che dal controllo sul ricambio generazionale della classe dirigente attraverso sistemi di istruzione elitari a pagamento. Il risultato, per Milanovic, è il rischio di dover assistere, in questi sistemi, a saldature difficilmente reversibili tra potere economico e potere politico in capo a élite ristrette e senza sostanziali possibilità di ricambio.
Dopo il capitalismo liberal-meritocratico, Milanovic passa a descrivere il modello del capitalismo politico, a paradigma cinese. Qui non interessa tanto soffermarsi sulla lettura del comunismo (o meglio del socialismo reale) quale fase di transizione, secondo il Milanovic storico, da organizzazioni feudali dell’economia a sistemi capitalistici nell’ex terzo mondo, né sulla suggestiva, proposta derivazione del capitalismo politico dalle rivoluzioni comuniste in nazioni in precedenza colonizzate.
Ciò che interessa, invece, sono i tratti essenziali del capitalismo politico contemporaneo enucleati da Milanovic: a) la presenza di una imponente burocrazia avente il compito di realizzare un’elevata crescita economica; b) l’affievolimento dello stato di diritto e il connesso riconoscimento di un’ampia libertà di azione a quella burocrazia; c) la capacità dello Stato, anche grazie a una certa indipendenza da vincoli giuridici, di controllare l’economia e il settore privato ottenendo la subordinazione degli interessi capitalistici a quelli dello Stato, secondo il modello di apertura controllata al mercato attuato sul finire degli anni Settanta dalla Cina di Deng Xiaoping.
È interessante notare come quest’ultimo tratto del capitalismo politico sia oggi confermato dai fatti correnti: si pensi al recente blocco voluto da Xi Jinping, a inizio novembre 2020, dello sbarco in borsa di Ant Group, il braccio finanziario di Alibaba e alla notizia secondo cui un dirigente del partito comunista cinese avrebbe spiegato in quell’occasione a un giornalista del Wall Street Journal che “a Xi non importa se un capitano d’industria arriva in cima alla lista dei ricchi, quello che gli interessa è che allinei i propri interessi a quelli dello Stato” (a riportare la notizia è Guido Santevecchi sul Corriere della Sera dello scorso 13 novembre, citando il WSJ).
Questo secondo modello descrive in definitiva un capitalismo sotto il pieno controllo della politica, di cui l’autore serbo-americano mette a nudo, con non minore severità – ci pare – di quanto fatto per il modello liberal-meritocratico, sia le contraddizioni strutturali (necessità di un’élite tecnocratica e altamente qualificata vs. allentamento dello stato di diritto; corruzione dovuta all’indebolimento dello stato diritto vs. necessità che il governo garantisca alti tassi di crescita come oggetto del contratto sociale), sia le performance negative (disuguaglianza presente anche in tale sistema e corruzione endemica nella classe dirigente).
Descritti i due sistemi capitalistici che oggi si confrontano (a cui andrebbe in realtà aggiunto un terzo sistema, il socialdemocratico, su cui tuttavia l’autore serbo non si sofferma), il Milanovic economista e il Milanovic storico passano la parola al sociologo.
Il risultato è forse la parte più appassionante e provocatoria del libro, in cui lo studioso serbo disegna la traiettoria della “inevitabile amoralità del capitalismo iper-commercializzato”: in pagine lucide e coraggiose il Milanovic sociologo denuncia senza mezzi termini la moderna crisi di valori e istituzioni, come religione e famiglia, un tempo concorrenti e compensativi del principio del profitto individuale. Si sofferma così sui fenomeni della atomizzazione sociale e della mercificazione, quest’ultima intesa come progressiva commercializzazione di spazi e tempi in passato appartenenti alla sfera privata dei singoli (qui Milanovic sembra pensare soprattutto alla gig e alla sharing economy e fa gli esempi di Uber, Lyft, Airbnb e dunque delle locazioni brevi delle prime case, della condivisione a pagamento dell’auto personale, della commercializzazione del proprio tempo libero).
In definitiva, Milanovic denuncia che il principio del profitto individuale alla base del capitalismo, già motore di importantissime conquiste umane, quando diventa ideologia e poi si avvale delle risorse offerte dalla rivoluzione informatica e digitale, è in grado di condurre, e probabilmente ha già condotto, a un’esasperazione dell’originario spirito del capitalismo: dalla ricerca sistematica e razionale della ricchezza si sarebbe già giunti oggi a uno stadio successivo, quello della “vita privata vissuta come capitalismo quotidiano”.
“La mercificazione della sfera privata è l’apogeo del capitalismo iper-commercializzato. Non presagisce una crisi del capitalismo. Una crisi si verificherebbe solo se la mercificazione della sfera privata fosse vista come un’intrusione in aree che gli individui volevano proteggere dalla commercializzazione, e come una pressione su di loro affinché si impegnino in attività nelle quali non volevano partecipare. Ma la maggior parte delle persone le percepisce in maniera opposta, ossia come un passo avanti verso l’arricchimento e la libertà. [...] Il capitalismo è riuscito a trasformare gli esseri umani in macchine calcolatrici dotate di esigenze illimitate. Quello che David Landes, nel libro “La ricchezza e la povertà delle nazioni” (1998), ha visto come uno dei principali contributi del capitalismo, che incoraggia un migliore uso del tempo e la capacità di esprimere tutto in termini di potere d’acquisto astratto, si è ora trasferito nella nostra vita privata. Per vivere nel capitalismo, non abbiamo bisogno del modo di produzione capitalistico delle fabbriche se siamo tutti diventati dei centri capitalistici noi stessi”.
Ma, a ben vedere, "c’è stato un prezzo da pagare":
“Le persone sono sempre più guidate dal solo interesse personale, anche in molte questioni comuni e personali. Lo spirito capitalista, testimonianza del successo generalizzato del capitalismo, è penetrato in profondità nella vita personale degli individui. Poiché l’estensione del capitalismo alla famiglia e alla vita intima era antitetica a concezioni plurisecolari in materia di sacrifico, ospitalità, amicizia, legami familiari e così via, non è stato facile accettare apertamente che tutte queste norme venissero sopraffatte dall’interesse personale. Questo disagio ha creato una vasta area in cui regna l’ipocrisia. Così, alla fine, il successo materiale del capitalismo ha finito per essere associato a un mondo di mezze verità nella nostra vita privata”.
Dove vuole arrivare Milanovic con questa analisi sociologica? Apparentemente da nessuna parte. Sembrerebbe un’interiezione di pura denuncia. Per il momento, comunque, teniamola in evidenza e ripensiamoci più avanti.
A questo punto Milanovic pone a confronto vantaggi e svantaggi dei due sistemi di capitalismo analizzati. Anche qui il giudizio pare lucido e tutto sommato equilibrato: il capitalismo liberale, tra l’altro, è in grado sulla carta di favorire beni primari come libertà e democrazia, rispetto ai quali invece il capitalismo politico pare strutturalmente inadeguato; quest’ultimo, a sua volta, garantisce una gestione più efficace dell’economia, ma è costantemente sotto stress per le pretese di risultato provenienti da cittadini che hanno barattato la libertà politica con il benessere economico. Un sistema simile è sempre in equilibrio precario tra corruzione ed efficienza: se la corruzione sfugge di mano, il sistema può crollare, ma se per contro si afferma troppa rule of law il sistema cambia radicalmente e la politica perde il controllo stretto dell’economia.
E veniamo finalmente al futuro. Secondo Milanovic un futuro ottimistico del modello liberal-meritocratico passa per la correzione dei più gravi fattori di disuguaglianza tramite azioni di politica economica dirette a diminuire la concentrazione della ricchezza e il peso dei redditi di capitale e a migliorare la mobilità intergenerazionale relativa dei redditi. Sono tutte azioni che gli economisti discuteranno in termini di idoneità tecnica e di opportunità politica e sono tutte azioni evidentemente orientate a ricondurre il capitalismo liberal-meritocratico verso forme social-democratiche. Il futuro virtuoso del capitalismo politico dipende invece dalla sua progressiva apertura a istanze liberali e democratiche.
Milanovic descrive però anche uno scenario pessimistico per il capitalismo liberal-meritocratico, nel quale la mancata correzione della tendenza alla disuguaglianza, la polarizzazione della società e la presa stabile del potere politico da parte della élite alto borghese, con la saldatura tra potere economico e potere politico, possono portare nel lungo periodo a una convergenza verso il capitalismo politico, in particolare a una nuova specie di capitalismo politico, di matrice plutocratica:
“La conservazione dell’élite richiede il suo controllo della politica, quello che ho definito “il nodo fra potere e ricchezza”. Più il potere economico e quello politico si uniscono nel capitalismo liberale, più il sistema diventa plutocratico e finisce per assomigliare al capitalismo politico. In quest’ultimo, il controllo politico è il modo per acquistare benefici economici; nel capitalismo plutocratico, un tempo liberale, il potere economico viene utilizzato per conquistare la politica. Il punto di arrivo dei due sistemi diventa lo stesso: unificazione e persistenza delle élites”.
Questa potenziale convergenza del modello liberal-meritocratico americano verso un modello di capitalismo politico, variante di quello cinese, sarebbe possibile per Milanovic a causa della mancata correzione della crescita della disuguaglianza.
C’è però anche un altro fattore in grado di catalizzare e al contempo anestetizzare gli effetti di quella convergenza. Milanovic non esplicita tale fattore, e a ben vedere non ne parla nemmeno, ma il lettore saprà interrogarsi se quel fattore possa essere rappresentato proprio dal lato oscuro dello spirito del capitalismo sul quale l’autore serbo-americano si è soffermato a lungo nel libro, sia pure a un livello per lo più interiettivo.
Che sia proprio lo spirito – o meglio l’ideologia – del moderno capitalismo iper-commercializzato, con la sua celebrazione della centralità assoluta del potere d’acquisto, del profitto e del risarcimento monetario, e con la sostituzione della domanda di ricchezza a quella di libertà e democrazia (due beni primari considerati oggi meno a rischio che in passato) a rendere più tollerabile da parte dei cittadini un’evoluzione distopica del capitalismo liberale verso forme di capitalismo politico, anziché verso forme di capitalismo socialdemocratico?
Che siano, in altre parole, quel particolare accento di esasperazione assunto oggi dallo spirito del capitalismo denunciato da Milanovic, e quella conseguente maggior disposizione dei cittadini a barattare quote di libertà in cambio di quote di ricchezza e redditi maggiori (“togliere la politica dalla testa della gente” scrive Milanovic), a rendere più accettabile al tessuto sociale la convergenza tra il capitalismo liberale e quello politico? A rendere cioè possibile il passaggio a un nuovo contratto sociale basato sul baratto tra libertà e ricchezza? Un nuovo contratto sociale nel quale i governanti non traggono più legittimazione dal processo elettivo democratico, bensì dai risultati, in termini di ricchezza e sicurezza, che riescono a garantire ai loro cittadini (si pensi a quanto l’offerta di sicurezza, per esempio in campo sanitario, sia e sarà avvertita come sempre più centrale in epoca pandemica e post-pandemica)? Un nuovo contratto sociale, infine, che disegna una curva evolutiva politica nuovamente a rischio di finire nel quadrante negativo, laddove un sistema siffatto rimettesse in pericolo il bene libertà che consideravamo troppo facilmente al sicuro?
Queste ipotesi Milanovic, per la verità, non le formula, ma la conclusione del libro e la sua lucida riflessione sociologica sulla deriva assolutizzante dello spirito capitalistico oggi in atto sembrano legittimarle.
Sul futuro del capitalismo, alla fine, il libro di Milanovic non offre previsioni chiare e nette, ma ha il merito di mettere lucidamente a fuoco le nevralgie e i rischi evolutivi del sistema. E questo – anche se non sembrerebbe d’accordo il Wall Street Journal, ingeneroso e a tratti aspro sul libro di Milanovic con Joseph Sternberg il 20 gennaio 2020 – pare ancora oggi un approccio umanistico serio all’analisi del futuro di questo nostro sistema. Su cui il libro di Milanovic presenta indubbiamente un finale aperto.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Capitalismo contro capitalismo. La sfida che deciderà il nostro futuro
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