Carso 1915. L’ingresso nell’inferno. Le prime battaglie tra il San Michele-Debela Griža e le alture di Selz
- Autore: Mitja Juren, Nicola Persegati, Paolo Pizzamus
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2022
Quattro capitoli, quattro titoli, sinistramente evocativi della Grande Guerra sul fronte italiano: “Monte San Michele, il primo dei Santi Maledetti”; “Bosco Cappuccio, la collina dei destini incrociati”; “I giorni disperati nelle trincee del Carso”; “Quando il cielo abbandonò il monte Sei Busi”.
Quattro parti del saggio storico pubblicato nel 2022 dalle edizioni udinesi Gaspari, che descrive in tutta la sua crudezza il primo sanguinoso impatto dell’Esercito italiano, poco più di un secolo fa, con la guerra di posizione sugli inospitali rilievi goriziani al confine con l’Austria. Tre autori per Carso 1915. L’ingresso nell’inferno. Le prime battaglie tra il San Michele-Debela Griža e le alture di Selz (407 pagine, con decine di fotografie d’epoca in bianconero fuori testo, mappe e cartine anche a colori).
Sono Mitja Juren, Nicola Persegati e Paolo Pizzamus, due tra i massimi studiosi del fronte isontino nel primo conflitto mondiale e un esperto di sistemi trincerati nel Goriziano. Hanno collaborato a un lavoro che porta i lettori sul terreno rossiccio, tra muretti di pietre, ripari precari di sacchi a terra, distese o rovine di tavole di legno, qualche lamiera e un mare di sassi devastato dal fuoco nemico e amico.
Le pendici di alture modeste, subito oltre la pianura friulana sopra Monfalcone, furono lo scenario doloroso e mortale di scontri che, nonostante il nostro esercito fosse entrato nel conflitto dieci mesi dopo lo scoppio della guerra in Europa, né comandanti né combattenti italiani si aspettavano così duri e feroci, né tanto superiori alle loro forze e volontà.
All’inizio delle ostilità contro l’Impero austro-ungarico, i primi sforzi vennero diretti da Cadorna contro la città di Gorizia, trasformata dal nemico in un campo trincerato, che aveva nel San Michele il primo contrafforte opposto alle truppe grigioverdi all’offensiva.
Un fronte di poche decine di chilometri. Pietraie, doline, avvallamenti e ampi rilievi poco elevati, quanto di più ingrato per chi vi combatteva, attaccava e difendeva, da entrambe le parti. Un’esperienza descritta con straordinario realismo lirico da Clemente Rebora, poeta soldato sul Carso (e poi sacerdote):
O ferito laggiù nel valloncello,/tanto invocasti/ se tre compagni interi/ cadder per te che quasi più non eri./ Tra melma e sangue/ tronco senza gambe... lasciaci in silenzio/ grazie, fratello.
Lo storico Marco Mondini ha messo in evidenza che queste alture modeste, che oggi si stenta perfino a riconoscere come quote, erano invece posizioni chiave, nella concezione della classe militare di allora e nell’unico teatro operativo che si prestasse a uno sfondamento strategico.
All’inizio del giugno 1915, il generale Gioacchino Nastasi sperimentò con amarezza il compito impari richiesto alle sue Brigate, Catanzaro e Bari. Avrebbero dovuto fare da cardine alla manovra aggirante a sinistra del XIV Corpo d’Armata, ma la difficoltà di combattere su quel terreno e le perdite in diversi attacchi ne avrebbero progressivamente paralizzato la capacità d’azione, causando lo stallo del settore. Osservava con impotenza lo scenario dei battaglioni ammassati sui declivi del San Michele: soldati con lo zaino in spalla, ufficiali a cavallo, carreggi pronti a muovere che non avevano occasione di farlo. Fanti dalla mostrina giallo-rossa, siciliani e pugliesi, con pochi commilitoni dei distretti di Belluno e Alta Lombardia.
Tutti insieme erano ragazzi, anche se provenivano in gran parte dalle classi anziane dell’85-’86-’87.
Non si contano gli episodi di quella guerra letale: da una trincea austriaca sventola una bandiera bianca, ma le truppe che si avvicinano sono fatte a segno a fuoco a breve distanza.
Nonostante gli ostacoli, le difficoltà e la mancanza di mezzi, i combattimenti proseguirono con accanita violenza. I fanti del 63° fecero fronte a contrattacchi avversari, oltre a dover superare reticolati insuperabili, con le pinze tagliafili inadeguate. In 24 ore, un reggimento vide sparire dai ranghi quasi 500 tra morti, feriti e dispersi.
Fino alla sesta battaglia dell’Isonzo dell’agosto 1916, Cadorna si ostinò ad aggredire le linee nemiche attestate caparbiamente su questi rilievi. Cinque “spallate” grigioverdi non conseguirono grandi conquiste, sul terreno disseminato di grovigli di filo spinato, di trappole, di ridotte fortificate. Agli avversari non erano risparmiate perdite ingenti, arrivando a registrarne “25-30 anche nelle giornate tranquille”.
A costi gravissimi per le nostre truppe, una lenta erosione su brevi distanze portò a superare entro novembre 1915 posizioni anticima a lungo imprendibili, dai nomi diventati tristemente famosi, assegnati dagli stessi combattenti: Trincea delle Frasche, Trincea dei Razzi, delle Celle, ad Y, Dolina della Morte, Quota 111, Bosco Lancia, Bosco Triangolare.
Per primo, si era opposto ai fanti italiani il monte Sei Busi, un rilievo appena accennato adiacente all’attuale Sacrario di Redipuglia. La sua scarsa elevazione (poco più di un centinaio di metri) contrasta con la vastità della cima quasi piatta, affiancata da altre piccole elevazioni. Le cave (enormi squarci giallastri aperti sui fianchi) e le doline (grandi buche naturali del terreno simili a piccoli crateri spenti), rendono evidente con quale facilità il nemico abbia potuto difendere questo bastione carsico, dove la guerra infuriò per un anno, lasciando ai fanti italiani impegnati nell’assedio solo la possibilità di affacciarsi appena al di là del primo gradino.
E il nemico? Come detto, soffriva, al pari dei nostri.
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