Chi ha paura muore ogni giorno. I miei giorni con Falcone e Borsellino
- Autore: Giuseppe Ayala
- Genere: Storie vere
“È bello morire per ciò in cui si crede;
chi ha paura muore ogni giorno,
chi non ha paura muore una volta sola.”Paolo Borsellino
Giovanni Falcone (20 maggio 1939 - 23 maggio 1992)
Paolo Borsellino (19 gennaio 1940 - 19 luglio 1992)
Nel 2012 cadono due tristi anniversari: 20 anni dalle tragiche morti dei tre magistrati, il 23 maggio quello di Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo e il 19 luglio quello di Paolo Borsellino e degli otto giovani delle due scorte. Forse, non a caso, mi sono ritrovata a leggere il libro di Giuseppe Ayala: ”Chi ha paura muore ogni giorno”.
Oltre ogni retorica, il libro è un alto e meritevole omaggio a questi grandi uomini che hanno perso la vita per il loro impegno e la loro dedizione nella lotta alla mafia, al servizio della giustizia, quella vera e giusta.
Dopo più di 15 anni da quella data memorabile 1992 (il libro risale al 2008), qualcuno ha scritto: “Ayala, ha ormai pagato il torto di essere rimasto vivo.” “Spero abbia ragione” (Ayala).
Giuseppe Ayala ripercorre gli anni che vanno dal 1979 (era pretore al tribunale di Caltanissetta) all’estate del 1992, quando due esplosioni annientarono tre magistrati (Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e Paolo Borsellino) e 8 giovani delle scorte, rispettivamente, a Capaci, il 23 maggio e in via D’Amelio a Palermo, il 19 luglio. Come afferma l’autore, il libro è:
“La storia di una grande amicizia nata per caso e vissuta tra successi e drammi. Che si ostina a non morire e che continua a farmi piangere, ma anche ridere. Con loro due”.
Per una fatalità, Ayala non si trovò il giorno dell’attentato con Giovanni Falcone e sua moglie Francesca Morvillo di ritorno da Roma, quel sabato 23 maggio 1992; a Capaci, alle 17.59, 500 chili di tritolo fecero scempio di 5 vite e della dignità di questo paese.
Il magistrato Giuseppe Ayala racconta 10 anni di vita insieme con i due magistrati e altri nella lotta alla mafia, la storia di quegli anni è rivissuta con grande rigore e onestà intellettuale e insieme con sentita commozione per il grande legame di amicizia che lo legava sia a Falcone sia a Borsellino. Di loro ricorda la dedizione assoluta al proprio lavoro, l’esigenza di fare luce sul fenomeno mafioso e cercare con convinzione di centrare al cuore di esso e annientarlo. Ma altre forze contrapposte si frapposero e se la nuova tecnica adottata da Falcone che le procure lavorassero congiuntamente allo stesso problema diede risultati positivi, (le condanne nel maxiprocesso istruito nell’aula bunker di Palermo), esaurita la fase delle stragi, l’emergenza mafia divenne routine ordinaria. Nel corso degli anni ’80 si succedettero come un bollettino di guerra tutta una serie di uccisioni, per mano di mafiosi, di rappresentanti della giustizia, delle forze dell’ordine, della politica in un crescendo spaventoso ed inarrestabile. L’elenco è lungo e terribile, da Gaetano Costa, procuratore della Repubblica di Palermo a Piersanti Mattarella, il presidente della regione siciliana, dal capitano dei carabinieri Giuseppe Russo al capo della squadra mobile di Palermo Boris Giuliano, dall’esponente politico della Dc Michele Reina al giudice Cesare Terranova: la mafia interveniva con i suoi metodi nelle scelte politiche del partito di riferimento. Il segnale era tremendo, era rivolto sia ai magistrati che lottavano contro la mafia sia contro i politici che volevano voltare pagina. Sempre nel 1981 venne crivellato dai colpi di kalashnikov Ak-47 il capomafia Stefano Bontade, la mafia si evolveva dalla lupara al kalashnikov, un salto di qualità, iniziavano le uccisioni di mafiosi per non parlare delle cosiddette lupare bianche, i morti senza ritrovamento di cadavere. Era questa la Palermo del 1981, una città trascinata in una spirale di violenza, sangue e terrore. Non c’era un sovvertimento politico, né una rivoluzione, era la mafia che scendeva in guerra, per regolare i suoi equilibri interni e per indebolire lo Stato. Non era un fenomeno solo delinquenziale, usciva fuori dall’ombra, era difficile non parlarne, i mass media volenti o nolenti dovettero dedicargli titoli in prima pagina. La mafia per i giudici istruttori non doveva essere più ordinaria amministrazione, ma emergenza primaria e fu quello che fece Rocco Chinnici, capo dell’ufficio istruzione ( anche lui ucciso dalla mafia), il punto di riferimento per i giovani procuratori, una specie di nume tutelare, così lo definisce Ayala, che assegnò al giudice Giovanni Falcone l’istruttoria del processo Spatola, personaggio di spicco dell’organizzazione mafiosa e nel business legato al traffico di stupefacenti tra Sicilia e Stati Uniti. Stava nascendo il metodo Falcone, “Visione unitaria e indagine a tutto campo”, un inedito impianto dell’istruzione dei processi di mafia, che si avvaleva degli ordinari strumenti forniti dal codice, adattandoli, però, a una nuova visione del fenomeno. Non bastava indagare in Sicilia o in Italia, se un carico di droga arrivava dagli USA, ma andare in USA e studiare gli effetti collaterali di quella operazione, niente più confini, la filosofia doveva essere, se l’eroina finisce negli USA viene pagata in dollari, restava cercare dove finivano i soldi: gli accertamenti bancari divennero il fulcro della nuova frontiera istruttoria. Intanto la mafia continuava a tenere altissimo il livello dello scontro militare con lo Stato, nel 1982 era ucciso un alto dirigente del Pci, Pio La Torre e il suo autista Rosario Di Salvo, alfiere della protesta popolare contro l’installazione di missili a testata nucleare a Comiso e sottoscrittore di un disegno di legge destinato a potenziare le misure di prevenzione patrimoniale e a introdurre nel nostro codice penale una nuova figura di reato: associazione a delinquere di stampo mafioso, scolpita dall’articolo 416 bis. Iniziarono a comparire nomi di capi mafiosi come Michele Greco, Luciano Liggio, capo dei Corleonesi, in carcere, i suoi luogotenenti Totò Riina, Bernardo Provenzano che, in sua rappresentanza, sostenevano il disegno egemonico nell’organizzazione mafiosa. Altri nomi di inquirenti vennero uccisi, il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa che aveva riportato straordinari successi sul fronte della lotta alle Brigate rosse. Dopo l’uccisione di Rocco Chinnici, il sostituto procuratore generale Antonino Caponnetto, continuò la stessa linea d’indagine e costituì uno stabile gruppo di giudici istruttori destinato ad occuparsi esclusivamente dei processi di mafia “Il pool antimafia” formato dai dioscuri Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, affiancati dai giudici esperti Leonardo Guarnotta e Peppino Di Lello. Questi nomi promossi non per anzianità, ma per merito non erano ben visti, iniziò una campagna discriminatoria ed infamante contro i giudici, definiti professionisti dell’antimafia, non dovevano lottare per combattere la mafia, ma il loro ruolo era quello di presidiare la legalità amministrando la giustizia. Il giudice è terzo, non può e non deve mai scendere in campo. Giovanni Falcone fu accusato di protagonismo, (Un articolo di Leonardo Sciascia, intitolava“ C’è chi trae personale profitto anche dalla lotta contro la mafia”). Intanto nell’estate dell’85 altre morti, i due commissari Beppe Montana e Ninni Cassarà. Tra febbraio 1986 e dicembre 1987 si svolse il Maxiprocesso nell’aula bunker di Palermo con due slogan: il teorema Buscetta e il metodo Falcone; Buscetta e Contorno svelarono la struttura e il funzionamento di Cosa Nostra. La conclusione in numeri fu: udienze 349, dibattimento 1820 ore, interrogatori 1314, atti processuali 66.000 fogli, sentenza 19 ergastoli, 2665 anni di carcere per più di 200 imputati. Da qui incominciò l’isolamento Falcone da parte del Csm e, come ebbe a dire Paolo Borsellino, Falcone cominciò a morire nel gennaio 1988 quando per continuare il suo lavoro propose la sua candidatura a succedere ad Antonino Caponnnetto e il Consiglio Superiore della Magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Mieli. Paolo Borsellino in un’intervista alla Repubblica del 20 luglio 1988 disse che le indagini si disperdevano in mille canali e intanto Cosa Nostra si riorganizzava come prima, più di prima. Le indagini di polizia giudiziaria persero di intensità ed incisività ( così chiarì Falcone, che non le mandava a dire, in un convegno, Su mafia alle soglie degli anni ’90). Quando venne meno la stagione delle stragi per esclusiva decisione della mafia, l’emergenza era finita. Ricordando le parole di Dalla Chiesa sulla “ combinazione” per cui si muore solo quando si è pericolosi, ma, al tempo stesso, isolati, e Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono isolati dallo Stato, la loro azione risultava sovversiva dalla mafia e andava con ogni mezzo fermata.
Un riconoscimento ufficiale della figura di Giovanni Falcone venne da una sentenza della Corte di cassazione la n. 826 del 19 ottobre 2004 che recita: “ Non vi è alcun dubbio che Giovanni Falcone, certamente il più capace e famoso magistrato italiano,…fu oggetto di torbidi giochi di potere, di strumentalizzazioni ad opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di invidia e gelosia (anche all’interno delle istituzioni) tendenti ad impedire che egli assumesse quei prestigiosi incarichi i quali dovevano, invece, a lui esser conferiti per essere egli il più meritevole ….nel contrastare ….l’associazione criminale. ….
Riporto la conclusione del libro: i due ricordi tragici impressi nella memoria di Ayala.
Rivede un ultima volta Giovanni Falcone in una “camera” fredda e spoglia: “ Eravamo soli, ma non parlammo. Lui dormiva. Un sonno senza risveglio.
Rivede Paolo Borsellino, nel pomeriggio del 19 luglio davanti alla casa di sua madre: “Ma non lo riconobbi. Ne era rimasto ben poco”.
Ha detto Agnese Borsellino: “Paolo cominciò a morire quando morì Giovanni, come due canarini che difficilmente sopravvivono a lungo l’uno alla morte dell’altro”.
Ayala: “Pare che un giorno ci ritroveremo ancora. Senza fretta, però. Loro ne hanno avuta troppa. Senza volerlo. E così sia”.
Giuseppe Ayala (Caltanissetta 1945) ha fatto parte per tutta la sua durata del pool antimafia di Palermo e ha rappresentato l’accusa nel primo maxiprocesso. È stato deputato e senatore per quattro legislature e sottosegretario alla Giustizia dal 1996 al 2000. È rientrato in magistratura nel 2006. Da Mondadori ha pubblicato con il giornalista Felice Cavallaro, La guerra dei giusti: i giudici, la mafia e la politica (1993).
Recensione di Arcangela Cammalleri
“Molti si chiedono perché non sono stato ammazzato anch’io. La domanda, anzi, mi è stata direttamente rivolta in più occasioni. La mia risposta è sempre la stessa, semplice e chiara: “Grazie all’Enel sono vivo”.
Sereno e amaro. Giuseppe Ayala, ex magistrato del pool antimafia del maxiprocesso degli anni ’90, non si risparmia nel raccontare la sua vita “blindata” durante gli anni della guerra di mafia. In “Chi ha paura muore ogni giorno”, il coraggioso giudice racconta non solo sfide e tradimenti dentro e fuori la Procura di Palermo. L’amicizia con Falcone e Borsellino, le burocrazie e le gelosie che li costrinsero ad abbandonare un’aperta lotta a Cosa nostra e la voglia di giustizia mai sopita sono le colonne portanti di questo racconto di vita che il togato autore vuole lasciare ai posteri. Una verità, quella di Palermo, che colpiva in pieno petto, uccidendo non solo con le armi, ma anche con le calunnie e le insinuazioni.
Nonostante le lotte di potere, a favore dell’anzianità e a scapito della competenza e della meritocrazia, andò avanti l’isolato Giovanni Falcone nella sua lotta alla malavita, mentre Dalla Chiesa e Chinnici perdevano la vita per la loro sete di giustizia. Ma la vita dei “morti che camminano”, così come fu definito chiunque lavorasse all’antimafia, fu connotata anche da rari momenti di spensieratezza e gioia, intrisi di quella triste consapevolezza mai persa di poter essere bersaglio dei killer in ogni istante. Sorrisi e battute di spirito, intrise di una logica non - esistenza, non hanno mai smesso di accompagnare il cammino di coloro che costituirono essi stessi il più puro e cristallino ideale di giustizia.
Nel 1992 il mondo perse lo Stato. Quello vero. Non quello strisciante tra i corridoi del Palazzo di Giustizia, ma quello itinerante tra Roma e l’estero, tra auto blindate e misure di sicurezza soffocanti. Giuseppe Ayala chiude la sua storia agro- dolce con le parole di Agnese Borsellino:
“Paolo cominciò a morire quando morì Giovanni, come due canarini che difficilmente sopravvivono a lungo l’uno alla morte dell’altro”.
In effetti, Paolo e Giovanni erano meccanismi di uno stesso ingranaggio, espressioni di un ideale di legalità che ancora oggi speriamo che rispunti all’orizzonte.
Recensione di Marianna Filosa
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