Immaginate di vincere un Nobel e che vi urlino contro. Questo è quanto successo a Claude Simon, scrittore francese insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1985, all’età di 72 anni. Il suo discorso, alla cerimonia di Stoccolma, fu un pallido tentativo di giustificarsi e di blandire la critica francese che non l’aveva riconosciuto né apprezzato e, anzi, all’annuncio si era domandata sconvolta come fosse possibile che dopo i nomi altisonanti di Sartre, Camus, un premio così prestigioso potesse andare a...
Claude Simon? Chi era costui? Un moderno Carneade, per dirla con Manzoni che ben sapeva dire le cose. Non riuscendo bene a definire la scrittura di Simon, né come giudicare la morale dei suoi romanzi, il mondo letterario si limitò ad appiccicargli la pretestuosa etichetta di “scrittore inclassificabile”.
Il premio Nobel che, invece, sapeva il fatto suo, decise di rispondere a coloro che l’avevano criticato attraverso il discorso del Nobel che, più che un ringraziamento o una riflessione, appare come una requisitoria: “Sono ormai un vecchio” esordiva, per poi elencare vari fatti della sua vita, rammentando di essere stato soldato, prigioniero, di aver vissuto mille esistenze in una sola esistenza, infine giungendo alla risposta che tutti si attendevano da lui, ovvero quale fosse il “senso” della sua opera.
Sono ormai un vecchio (...), mi sono trovato al fianco di persone di vario genere, preti e incendiari di chiese, tranquilli borghesi e anarchici, filosofi e analfabeti, ho condiviso il pane con mendicanti, infine ho viaggiato un po’ ovunque nel mondo... e tuttavia non ho ancora mai, a settantadue anni, trovato alcun senso in tutto ciò, se non - come diceva, credo, Barthes citando Shakespeare - che «se il mondo significa qualcosa, è che non significa niente», tranne che esiste
Rispondeva così, l’autore, a chi aveva colto essenzilamente nella sua opera il fallimento di un senso, la fine di tutte utopie reali e immaginarie. Di certo la narrativa sperimentale di Claude Simon era figlia dell’era atomica, nata (o forse sarebbe meglio dire esplosa) dopo il 1945.
Il Premio Nobel era stato attribuito a Simon con la seguente motivazione:
A Claude Simon che nei suoi romanzi fonde la creatività del poeta e del pittore nella profonda conoscenza del tempo e la descrizione della condizione umana.
Scopriamo la sua storia.
Claude Simon, l’incompreso Premio Nobel francese
Era nato in Madagascar, nel 1913, alla vigilia della Prima guerra mondiale, in un mondo che stava muto sull’orlo del baratro. Di quella guerra avrebbe riportato le ferite, anche se solo morali ma, proprio per questo, indelebili: il padre morì nel 1914, ferito a morte nella battaglia di Verdun. Poco tempo dopo scomparve anche la madre, a causa di una malattia, e il giovane Claude fu allevato dalla nonna.
Scoprì la sua passione artistica molto presto, dedicandosi soprattutto alla pittura e alla nascente tecnica della fotografia. Alla letteratura voleva affidare il medesimo intento: “non dimostrare, ma mostrare”. Credeva che il compito dell’arte fosse appunto quello di mostrare, far vedere. Per questo motivo, dopo il primo romanzo, Le tricheur, pubblicato nel 1945 e un secondo romanzo, La corde raide (1947), decise di dedicarsi anima e corpo alla ricerca di una nuova tecnica narrativa. Claude Simon voleva permettere alla scrittura di andare oltre sé stessa, esplorare un sintagma di senso che andasse oltre il senso, rompere con la tradizione e fondare un nuovo canone immaginativo. Voleva dare parole alla nuova realtà - la realtà nata dopo la guerra, l’origine generata dal caos - il tumulto in costante fermento della contemporaneità. Vennero così i suoi romanzi più sperimentali, che si fanno portavoce della nuova cifra stilistica: Gulliver (1952), le Sacre du printemps (1954), una trilogia coronata dal più celebre Le Vent (1957) in cui lo scorrere del linguaggio - come il vento - cerca di imitare, farsi mimesi, dello scorrere dei fatti. Negli anni Cinquanta, Simon fu uno dei massimi esponenti del Nouveau Roman, insieme ad Alain Robbe-Grillet.
Simon incarnava una rottura con la tradizione letteraria corrente, portava la letteratura a riflettere su sé stessa costringendola ad assumere un nuovo volto. Va da sé che non si tratta di una lettura facile: le pagine di questo scrittore, definito non a caso “apocalittico”, sono difficili perfino per i lettori colti, più avvezzi alle continue metamorfosi della parola.
Leggere alcune pagine dei romanzi di Claude Simon equivale a immergersi in un flusso di coscienza inquieto, tormentato, angoscioso che non concede tregua: immagini di morte e di strazio, si alternano a una coscienza lucida, audace, che si pone continuamente in discussione. Ne Il senso delle cose sembra dare corpo al sottofondo tragico del mondo contemporaneo con una scrittura che ti trasporta come una sinfonia, ma non è mai uguale, ed è continuamente tesa a svelare il senso occulto delle cose, senza tuttavia mai consegnarcelo a piene mani. La scrittura di Simon continuamente svela e nasconde, svela e nasconde, è sovrabbondante di aggettivi e pronomi, ma ti intrappola nella sua ardita retorica e ti avvolge senza scampo nelle sue spirali. Le immagini di guerra, di morte, fanno capolino persino nelle descrizioni paesaggistiche in apparenza più soavi, come un mattino d’estate.
Da ragazzo Claude Simon aveva compiuto lunghi viaggi in Europa, aveva poi compiuto studi umanistici a Parigi e a Cambridge; ma la Seconda guerra mondiale aveva spezzato la sua libertà e i suoi vagabondaggi senza limiti. Si era arruolato, aveva combattuto al fronte, era stato fatto prigioniero dai tedeschi e deportato in Germania. Tutte queste circostanze tornavano nei suoi libri, come una trama sotterranea, silenziosa, un tentativo di ricostruzione di ciò che era andato disperso.
È vero, Claude Simon era uno scrittore difficile, ma, come da lui stesso dichiarato dopo l’attribuzione del Nobel, il suo intento non era quello di mirare a un senso. Le sue opere erano un esercizio di decostruzione, il tentativo di riprodurre le allucinazioni di una coscienza traumatizzata dalla follia della guerra.
Lo scrittore francese sottoponeva ogni suo libro a una prova diversa: ne La corde raide sperimenta una storia senza soggetto, in Le Herbe elimina del tutto la persona del narratore e così via, scomponendo la struttura del narrare per giungere a una nuova frontiera della visione.
No, Claude Simon, non voleva essere compreso; lui voleva “far comprendere”, e proprio qui sta tutta la differenza.
Il Nobel contestato a Claude Simon
Il conferimento del Premio Nobel per la Letteratura fu un fulmine a ciel sereno nella vita di Claude Simon. Nessuno, prima di allora, gli aveva prestato troppa attenzione; adesso ecco che il mondo letterario lo notava, finalmente lo vedeva e, in modo paradossale, gli si ritorceva contro. Anziché festeggiarlo, celebrarlo, osannarlo, ecco che la sua nazione, la Francia, lo tradisce e lo insulta: viene considerato uno scrittore impopolare, criticato senza remore. Sulle pagine di un giornale un critico audace scrive:
Hanno dato il Nobel a Claude Simon per confermare la diceria che il romanzo è finalmente morto?
A tutti, Simon risponde nel suo discorso tenuto presso l’Accademia di Svezia durante la cerimonia di premiazione. In quella circostanza, a dispetto delle critiche più insulse, dimostra di essere un vero intellettuale, partendo proprio dalla più aspra delle ingiurie: vuole dimostrarci che il romanzo è morto?
Claude Simon riflette sul ruolo dello scrittore e, così, facendo, ci dice che il romanzo muore ogni giorno, almeno finché c’è un romanziere che si siede alla scrivania e, dinnanzi a una pagina bianca, tenta di scrivere il mondo capovolgendo i termini del linguaggio. Ogni scrittore scrive nel suo proprio presente.
Ecco, forse era questo il “senso” che alla più ardita critica letteraria e intellettuale continuamente sfuggiva.
Recensione del libro
Il senso delle cose
di Claude Simon
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Claude Simon: il premio Nobel dell’Apocalisse
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