Comanche. Vivere e morire alla frontiera del West
- Autore: Stefano Di Marino
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2021
Il grido di guerra dei nativi risuona nelle pagine di Comanche. Vivere e morire alla frontiera del West, monografia di Stefano Di Marino per le Edizioni Odoya (luglio 2021, 288 pagine).
Come gli altri volumi delle collane illustrate della casa editrice di Città di Castello, il saggio di Stefano — narratore, giallista, esperto di storia, cinema e arti marziali — è fittamente corredato da disegni, immagini e riproduzioni in bianconero. Propone in appendice pagine di letteratura, cinema e anche fumetti, legate al tema degli “indiani”, dei “bianchi” e della Frontiera.
Si stimano in 26mila i Comanche, due terzi dei quali guerrieri, nel periodo di massima espansione demografica, tra il 1700 e il 1830 (gli Apache probabilmente mai più di 7mila). La Comancheria, il territorio da loro battuto, si estendeva dal Nebraska al New Mexico.
Piccoli di statura, non oltre 1 metro e 65, ma velocissimi e letali con archi, frecce e lance soprattutto a cavallo, chiamavano se stessi Nermernuh, che vuol dire “popolo”. Pur non costituendo una unità politica, i tredici gruppi tribali non si combattevano tra loro, a differenza di altri nativi, sempre pronti alla rivalità gli uni contro gli altri. Comanche è derivato dagli Spagnoli, dalla storpiatura in castigliano del termine Kamatcha, usato dagli avversari Osage per indicarli.
Popolo numeroso ma primitivo, remissivo e perfino bullizzato dai nativi più progrediti negli usi, costumi e credenze fino al XVII secolo, visse un’evoluzione totale grazie al cavallo, portato nelle Americhe dagli Spagnoli. Scoprirono un nuovo mezzo per muoversi, cacciare e combattere, che li portò in breve a diventare temutissimi signori della sterminata prateria che copriva un’ampia parte del Sudovest dei futuri Stati Uniti. La loro storia rispecchia la realtà della Frontiera americana, un luogo di vita durissimo, non solo per le condizioni avverse della natura e nel quale tutti hanno consumato brutalità non tollerate in altri contesti civili.
I Comanche erano le migliori truppe a cavallo del mondo, per il generale Dodge, primo tra gli americani a incontrarli all’inizio del 1800. La migliore cavalleria leggera del mondo: restarono signori del loro territorio fino al 1875, disputandolo a messicani, altri nativi, infine ai texani e guadagnando una fama sinistra di guerrieri spietati e brutali. La loro è una storia di violenza, di sofferenza, di capacità di sopravvivere a epidemie, uragani, truppe avversarie. Li condusse alla sconfitta solo l’adozione delle armi semiautomatiche a retrocarica. Come l’uso del cavallo li aveva portati al vertice, un progresso dei “visi pallidi” determinò la loro caduta. Le carabine a ripetizione stroncarono le rapidissime cariche a cavallo, che i fucili a lenta avancarica non avevano il tempo materiale di contrastare.
Il loro territorio di caccia andava difeso con ogni mezzo. Da qui la proverbiale ferocia dei Comanche, le cui incursioni dovevano generare un senso di terrore in chi si trovasse a disturbare la zona di caccia. Ne andava della stessa sopravvivenza della tribù, che si batteva con brutalità, senza risparmiare mutilazioni e torture, perché quella era la cultura imposta dal luogo impervio che dominavano.
Non conoscevano l’arte della guerra occidentale, applicavano alcune regole in modo istintivo, per attirare il nemico sul terreno dissestato. Scaltrezza istintiva, derivata soprattutto dalla caccia. Soprattutto durante la luna piena (da cui il detto "Luna Comanche"), conducevano scorribande e razzie, per procurarsi cavalli, prigionieri e armi. Non valeva per loro il pregiudizio che voleva gli indiani restii a combattere di notte. I Comanche erano guerrieri razziatori, combattevano secondo i principi della guerriglia, quando lo trovavano conveniente e il buio è un momento propizio per sorprendere gli avversari. Inoltre la luna piena è particolarmente favorevole per le scorrerie e le azioni di guerra.
Quello che sappiamo sul loro modo di vivere ci è giunto quasi un secolo e mezzo dopo, dai racconti delle donne prigioniere, tra le quali la celeberrima Cynthia Ann Parker. Come lei, molte messicane, native di altri gruppi e in seguito ragazze e donne bianche, sopportarono le difficilissime condizioni di sopravvenienza nelle pianure.
Dopo la cattura, subivano stupri di gruppo dai guerrieri durante il percorso di ritorno alla tribù, senza nessuno scrupolo, ma il peggio seguiva al campo, dove venivano consegnate alle donne, che le costringevano ai lavori più pesanti, consapevoli ch’erano state e avrebbero continuato a essere oggetto di aggressione sessuale da parte degli uomini. Più volte i tentativi di fuga venivano puniti con mutilazioni e molte prigioniere recuperate dai bianchi mostravano cicatrici da ustioni sul viso.
Curiosamente, malgrado venisse riservata una vita durissima che non risparmiava percosse e torture, quasi tutte si adattarono allo stile di vita nomade e non seppero poi adeguarsi all’esistenza civile.
Malattie, alcol, il contagio dei modi di vita dei bianchi, l’impatto con una civiltà alla quale i Comanche si sono sempre opposti li ha condotti pressoché all’estinzione nel 1975.
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