Le edizioni romane Elliot hanno pubblicato, con la cura del poeta Paolo Febbraro e testo originale a fronte, il volume di versi Confluenze di Geoffrey Brock, tradotto da Damiano Abeni, Moira Egan e dallo stesso Febbraro.
Brock (Atlanta,1964) è docente universitario, traduttore e autore di due premiati volumi di poesia, oltreché di numerosi saggi letterari.
La sua è una poesia limpida, facilmente “percorribile” e insieme autorevole, nutrita di sapienza antica e di maestria formale, come suggerisce il prefatore. Poesia descrittiva, di luoghi e di persone, che prende spunto da episodi marginali come da esperienze fondanti del passato, o da posti visitati turisticamente (un cimitero di guerra, un’antica necropoli, la spiaggia vicino a Roma, il Messico) ritrovati con nostalgia nella memoria. Ma anche da brani letti casualmente o studiati con accanimento, opere liriche, documenti storici, trattati di ornitologia, quadri famosi, sogni che si confondono con la realtà: tutto quello, insomma, che nutre la quotidianità di qualsiasi individuo, filtrato dalla coscienza emotiva e scalfibile del poeta.
I ricordi, come i sogni, gli incubi e le associazioni fantastiche sfociano in qualcos’altro che non è, o non è più, la realtà: una verità riformulata, quando i dati concreti possono rivelarsi minacciosi, nella loro appurabile spietatezza.
La fidanzata infedele non è tornata indietro pentita, ma si è felicemente risposata; una particolare battaglia tra i Sioux e i soldati bianchi non è mai stata combattuta; lo splendido animale apparso nel bosco a due osservatori spaventati (“annidati come / cucchiai in un cassetto di coltelli”) era forse un fantasma…
“Parlando sommessamente, Brock è in ascolto delle ondulazioni armoniche e degli ultrasuoni che le sue voci, i suoi luoghi producono”
commenta Febbraro.
Il poeta americano si esprime con una voce volutamente smorzata, lontana da ogni stentorea sicurezza, persino nell’indignazione della denuncia politica, nelle rivisitazioni mitologiche, nelle ricostruzioni epiche, come lui stesso scrive in una delicata composizione, La stanza al piano di sopra, in cui confessa di tendere l’orecchio con trepidazione per captare i rumori provenienti dall’appartamento dei vicini, testimonianza di presenze umane:
“Ed è così / che in me è cresciuta l’assuefazione / al silenzio: al telefono parlo sommessamente, / levo l’audio alla TV”.
Per Brock tutto diventa passibile di poesia, anche l’avvenimento più banale e prosaico: una cena offerta da un facoltoso compagno d’università, la partita a frisbee giocata in un gelido pomeriggio a Filadelfia, il picchio alla finestra del soggiorno, una donna anziana che legge al parco, lo spazzolino da denti. Tanto più, quindi, gli incontri carichi di affettività, come quello con la vecchia madre, in una delle poesie più belle del volume (Viale Per sempre):
Ho incontrato mia madre, sfiorita, / l’altra notte in un sogno febbrile, / soprabito nero come terriccio, / la chioma un bluastro senile. // Dapprima non la riconobbi, / gli anni ebbero il sopravvento: / la spina dorsale mutata a virgola, / ed ogni passo più lento. // … Offrii il braccio a quella donna, / ma lei mi volse un volto sdegnato: / ‘Cos’è che ora ti riporta / alla strada in cui sei nato?’ // La bocca le si chiuse di scatto / come la lama di un pescatore, / il viso mutò in quello di mia figlia, / mia figlia mutò in mia moglie, // e tutte cantavano ‘Happy Birthday’ / come fece Marilyn al Presidente, / e il loro soprabito si schiuse, / e io sentii di cadere nel niente. // Chiunque fosse ora mi stava baciando, / le labbra sulle mie come ghiaccio. / Mi risvegliai in un mare di sudore – / da solo, in fiamme, diaccio.
Il sentimento prevalente è quello della perdita, il pensiero accorato e pungente riguardo a ciò che non è più recuperabile: l’infanzia, un amore giovane, una casa abbandonata.
“Il passato – ecco dove troverai il tuo paradiso. // … Qualunque cosa ora ti sia di fronte / non sarà stato un paradiso finché non è perduto”.
La poesia di Geoffrey Brock non nasconde nulla, è percettiva, dichiarativa, non lascia spazio al lettore per un’interpretazione personale del testo, anche quando si stempera in aloni onirici. In questa sua trasparenza oggettivata si accomuna alla quasi totalità della poesia americana degli ultimi cinquant’anni, differenziandosene tuttavia per una cura levigata dello schema stilistico, lontano dallo spontaneismo e dall’improvvisazione. L’utilizzo sapiente delle rime e di una metrica composta hanno fatto parlare alcuni critici di formalismo. In realtà Brock aderisce in maniera consapevole e meditata più che a tradizioni obsolete, all’equilibrio rispettoso che debbono avere le parole quando si incastonano nel ricamo elegante della composizione poetica: all’interno di argini collaudati, come giustamente suggerisce Paolo Febbraro, senza strabordare.
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