El Alamein
- Autore: Claudio Vercelli
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2020
“Mancò la fortuna, non il valore!”: per quasi ottant’anni è stata la sintesi della campagna di guerra italiana in Africa Settentrionale, dal giugno 1940 al maggio 1943. Una definizione efficace, che mette in risalto la determinazione con cui lottarono i nostri, nonostante gli enormi limiti tecnici e di comando, ma che per il resto risulta troppo generosa: nemmeno la sorte dalla propria parte avrebbe consentito di superare i difetti congeniti che penalizzavano la nostra partecipazione alla seconda guerra mondiale, dalla parte degli aggressori. È del tutto evidente, leggendo un saggio breve, El Alamein, pubblicato nei primi del 2020 dalle Edizioni del Capricorno (tante belle riproduzioni fotografiche anche a colori, 158 pagine), a cura di un ricercatore di storia contemporanea e firma abituale per la casa editrice torinese, Claudio Vercelli, docente a contratto alla Cattolica di Milano.
Fortuna e valore: la scritta campeggia sopra un cippo di marmo, depositato nel deserto egiziano dai Bersaglieri del 7° Reggimento, nel punto avanzato raggiunto nella nostra offensiva dell’estate 1942, sulla strada per Alessandria e il Cairo. Sulla linea di El Alamein si verificò un’altra sconfitta bruciante, 25 anni dopo Caporetto, tra il 23 ottobre e il 4 novembre 1942: le forze dell’Asse furono battute e respinte definitivamente dalle truppe anglosassoni.
È l’argomento del saggio di Vercelli, che molto efficacemente comincia col verificare come si era arrivati a quella sfida in Libia-Cirenaica-Egitto, decisiva in negativo, con la tragedia in Russia, per le “fortune” del regime mussoliniano ed eversiva del nostro ruolo nella seconda guerra mondiale.
In effetti, quell’esito era segnato fin dall’inizio. Lasciamo da parte il pur fondamentale apporto bellico e strategico in Africa Settentrionale dell’Afrika Korps di Rommel: la campagna italiana contro i britannici non avrebbe potuto avere conclusione diversa, perché tanto in mare che sulle sabbie l’impreparazione delle nostre forze armate ci metteva in uno stato di inferiorità tecnica, tattica, logistica e di iniziativa nei confronti del nemico, più dotato di mezzi e di armi e truppe specializzate per quelle campagne.
La guerra nel deserto somigliava del resto a quella in mare e se l’Italia fascista si poneva sul piano propagandistico con fin troppa spocchia, deficitava del tutto sotto l’aspetto militare, tanto sulle acque (aveva difetti anche la nostra pur prestigiosa componente sottomarina) quanto soprattutto negli enormi spazi libici.
Fino al 1936, la Regia Marina non aveva mai preso in considerazione un conflitto con la Gran Bretagna e quando lo fece, le previsioni si indirizzarono verso “una sconfitta pressoché certa”. Solo la neutralizzazione immediata della flotta francese consentì alla nostra flotta (in particolare al naviglio leggero, che veniva comunque falcidiato sulle rotte obbligate tra la madrepatria e la Libia), di tenere il mare e assicurare costantemente i dispendiosi collegamenti per rifornire i reparti in Africa Settentrionale. Restavano però i peccati originali, che condizionavano pesantemente l’impiego delle unità maggiori, corazzate e incrociatori, buone navi ma usate col contagocce: le perdite sarebbero state praticamente insostituibili (e tali furono), visti gli handicap, la carenza di carburante, di materiali ed anche di cantieri navali. L’apparato industriale non era all’altezza dell’impegno su grande scala. Il regime fascista non aveva in alcun modo mobilitato l’industria nazionale verso la produzione militare o un adeguato sviluppo tecnologico specifico. E l’isolamento dalle altre potenze limitava alla Germania la fonte di approvvigionamento delle materie prime.
L’Esercito era uno strumento di guerra pletorico, molto numeroso (1.200.000 uomini nel 1939), ma fragilissimo ai vertici: troppi generali (generosamente promossi oltre i meriti) e troppi ufficiali di complemento non professionisti, per lo più nemmeno adeguatamente addestrati.
Nella Libia italiana, all’inizio di giugno del 1940 erano disponibili 9 divisioni dell’Esercito, 3 della Milizia e 2 libiche, schierate a Occidente, sul confine tunisino-francese e in misura minore a Oriente, verso l’Egitto. Un totale di 221.500 uomini sulla carta, con appena 8mila automezzi, quasi altrettanti cavalli, cammelli e muli, 339 modestissime tankette da appena 3 tonnellate, armate solo di mitragliatrici, poco meno di 2.000 moto, 125 bombardieri, 88 caccia, 34 velivoli d’assalto, una cinquantina da ricognizione, per lo più privi degli indispensabili filtri anti sabbia. Le armi di reparto “erano a dir poco carenti e obsolete”, l’addestramento al combattimento “lasciava a desiderare”.
Un’armata da cartolina, uno spiegamento di forze statiche, in un territorio sconfinato, dove la guerra andava condotta invece come quella in mare, con grandi spostamenti di reparti e trasporti su ruote, lungo le lunghissime linee di rifornimento. Non avevamo mobilità e pagammo gravemente il difetto. Si pensi che se le truppe in Libia venivano pomposamente chiamate “forza mobile”, l’unico spostamento possibile era solo a piedi.
"Nella prima parte della guerra in Nord Africa, i comandi italiani rivelarono quindi la loro insipienza rispetto a una guerra nel deserto, dove la mobilità e i collegamenti costanti erano più importanti del numero delle truppe."
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