Ero un kamikaze
- Autore: Ryuji Nagatsuka
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Straniera
- Anno di pubblicazione: 2013
“Cari genitori alle sette lascerò questo mondo…”, il testamento, il diario e la spada da ufficiale di Ryuji Nagatsuka vennero consegnati ai genitori dopo la missione finale, ma il loro ragazzo era uno dei pochi aspiranti piloti suicidi giapponesi scampati alla morte. J’étais un kamikazé. Les chevalier du vent divin, l’elegante titolo francese cita il vento divino, anche se Nagatsuka contesta l’etimologia del termine, come vedremo. La traduzione è stata letterale, nella prima edizione italiana del 1973: Ero un kamikaze. I cavalieri del vento divino, riproposta dalle Edizioni PGreco nel 2013 (collana Dossier, 262 pagine, 13.60 euro).
Il pomeriggio del 2 ottobre 1943, Nagatsuka aveva 19 anni, frequentava il liceo, studiava e amava la letteratura francese, quando l’atteso proclama del primo ministro nipponico, il generale Tojo, sollecitava i cittadini a compiere il massimo sforzo bellico nella guerra contro gli occidentali. Nello stesso tempo, comunicava la sospensione del rinvio del servizio militare per motivi di studio. Il governo chiedeva agli studenti d’essere pronti ad arruolarsi fin dal giorno successivo e il 1 giugno dell’anno dopo, forte della massima idoneità fisica, l’unico figlio maschio di una famiglia di cinque cominciava il corso piloti dell’Esercito (perché non voleva rischiare di finire a sostenere lo sforzo bellico in fabbrica).
Nella prefazione, lo scrittore francese e come lui aviatore nella seconda guerra mondiale Pierre Clostermann, più grande solo di una manciata d’anni, sottolinea la grande sensibilità di questo intellettuale pacifista, amante di Màupassant. La considera la testimonianza sincera di un giovanissimo ufficiale, che attraverso un delicato travaglio emotivo recise a confessare la rassegnazione di andare incontro al destino di morte suicida, già affrontato da migliaia di connazionali. Tuttavia, diversamente dagli altri, non lo faceva in nome dell’imperatore, quanto per il dovere di difendere la patria aggredita dal nemico, anche se da ragazzo indipendente e intelligente non approvava incondizionatamente il modo d’essere della comunità giapponese, tanto meno il fanatismo che la soffocava.
Oltre a una personale, ma dettagliata ricostruzione cronistica dell’intera guerra nel Pacifico, Nagatsuka descrive con grande candore il processo psicologico che l’aveva portato alla scelta del sacrificio suicida, nonostante la forte avversione per la casta dei rigidi militari di professione dell’Esercito, che condivideva con altri studenti.
Secondo le cifre indicate dall’Aviazione americana nel 2009, la prima missione suicida ufficiale dei piloti giapponesi avvenne il 21 ottobre 1944 nelle Filippine, l’ultima il 15 agosto 1945, quasi dieci giorni dopo Hiroshima. Perirono quasi 4mila kamikaze (2.526 aviatori della Marina imperiale, 1.387 dell’Esercito). Ostacolati dai radar, caccia intercettori e fuoco antiaereo, il 14% degli attacchi suicidi impattò il bersaglio, affondando 81 navi, l’8,5% di quelle colpite (195 danneggiate), 4.900 i marinai uccisi, oltre 4.800 feriti.
Davanti alla commissione d’inchiesta americana, il generale Kawabe, dello Stato maggiore imperiale, contestò l’espressione “attacchi suicidi”. Non è quello che le “tattiche kamikaze” volevano essere, ma la dimostrazione di una superiorità etica:
fino all’ultimo abbiamo creduto di poter bilanciare la vostra forza materiale e scientifica con le nostre convinzioni spirituali e la nostra forza morale.
Nagatuska contesta a sua volta la pronuncia "kamikaze”. Sostiene che questa lettura dei due ideogrammi della scrittura giapponese sia dovuta ai nisei, i nippo americani di seconda generazione, che non sapevano leggere correttamente il giapponese e pronunciavano i due caratteri giapponesi per Vento Divino nel modo più volgare: “kamikaze”. La prima unità sucida nelle Filippine si chiamava invece “Shinpu”.
Alle 4 del 29 giugno 1945, il neo capitano Ryuji Nagatsuka è pronto al volo finale contro la flotta americana. Nel corso dell’ultima notte, l’avvicinarsi della morte “a grandi passi” l’aveva spinto a negare dentro di sé le virtù della vita. Le sconfitte e le sofferenze patite dal suo popolo puntellavano la decisione. Aveva fatto la scelta “per amore dei suoi” e la manteneva.
Dopo il lento rituale prima dell’ultimo decollo, ritardato per le condizioni meteo avverse, la formazione col sole rosso in avvicinamento al bersaglio sulle ali venne intercettata dai caccia americani, i moderni Grumman. Il suo aereo malandato, difettoso, alimentato dalla pessima benzina avio giapponese, ebbe la peggio. Atterraggio forzato in risaia. Ripresi i sensi in ospedale, tornò a casa solo dopo che i suoi effetti e il testamento avevano già raggiunto e addolorato i genitori, secondo le regole.
Il 15 agosto, a mezzogiorno, ascoltò alla radio il discorso dell’imperatore: la resa del Giappone. Ha dedicato il libro:
ai compagni di lotta, gli eroici piloti suicidi che sacrificarono la vita per la patria, e ai marinai americani che ne furono le vittime. Alla memoria di mia madre che sul letto di morte mormorava ancora il mio nome.
Ero un kamikaze. I cavalieri del vento divino
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