I carri armati leggeri italiani. Dal 1919 al 1970
- Autore: Nico Sgarlato
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2023
Nel 1940-43, l’Esercito italiano considerava carri armati leggeri quelli che oggi equivarrebbero ai veicoli multifunzione “Humvee” (gipponi evoluti). Schedava come medi, cingolati che per tedeschi, russi e alleati sarebbero stati tutt’al più buoni carri leggeri. A parte la presuntuosa classificazione di allora, i nostri leggeri si dimostrarono all’altezza dei pari ruolo stranieri (da ricognizione), ma ce ne passa da qui a impiegare come carri da combattimento anche i CV33 e CV35, le “scatole di sardine” da tre tonnellate. Eppure, ottanta e più anni fa si è tentato, con tragici risultati.
Accenna a questi argomenti, sebbene si soffermi prevalentemente sulle componenti tecnologiche e costruttive, il saggio di un validissimo storico militare e tecnico dei trasporti, Nico Sgarlato, un volume illustratissimo in bianconero, I carri armati leggeri italiani. Dal 1919 al 1970, pubblicato nel 2023 dall’Istituto Bibliografico Napoleone di Roma (IBN, collana Pagine Militari, 120 pagine).
Una bella rassegna dei mezzi corazzati italiani, che fino al 1935 sarebbero da classificare tutti "leggeri", rispetto ai criteri costruttivi e d’impiego seguiti all’estero. Schede, dettagli, produzione e attività operativa, dal carro d’assalto Fiat 3000 degli anni Venti, sviluppato sul modello dell’ottimo Renault francese, all’agile blindato cingolato armato M24 Chaffee di progetto USA (ritratto in copertina), in uso nell’EI ancora alla vigilia degli anni Settanta, come esplorante divisionale.
Nico Sgarlato invita a prendere le distanze dalle leggende di guerra fiorite intorno alla nostra deficitaria dotazione di mezzi, nella Seconda guerra mondiale, come “gli alpini con le scarpe di cartone nella neve”.
Però, non resistiamo alla tentazione di citare un aneddoto.
Sembra che nei primi anni delle ostilità circolasse tra la gente una battuta che prendeva in giro la debolezza di un’Italia trascinata impreparata nel conflitto da Mussolini. Alludendo spiritosamente al tiro inefficace dei cannoni antiaerei contro i bombardieri alleati, vantava la decorazione immaginaria riconosciuta ai serventi, con la motivazione: esaurite le munizioni, continuavano a fare boom con la bocca, conseguendo lo stesso risultato.
Credendo di andare a spartire conquiste nelle trattative di pace che riteneva imminenti, il duce si era affrettato a spingere in guerra il nostro Paese nel giugno 1940, come un pezzente al desco dei signori. Ma il bluff fallito sul tavolo della storia aveva smascherato il nostro peso del tutto inadeguato nell’economia bellica. Eravamo insufficienti, sotto qualsiasi aspetto, soprattutto e gravemente per la scarsità di materie prime e la debolezza in termini di mezzi, di capacità produttiva, di potenza industriale. E di concezione della forza militare.
Viene a proposito un altro esempio personale. In un importante Sacrario Militare, mi è capitato di fermarmi accanto a un magnifico Sherman americano, esposto nell’area museale all’aperto. Lo indicavo alla folla di visitatori raccolta attorno, chiamandolo “carro armato medio” e uno dei custodi del complesso, un dipendente di Onorcaduti - certamente un ex militare - tenne a correggermi, sostenendo che l’M4 fosse invece un carro pesante.
Nacque una corretta, ma irrisolta, disputa tra “medio” e “pesante”. L’interlocutore, fuorviato dai bassi standard della storia bellica nazionale, proprio non riusciva a vedere soltanto un tank medio in uno dei protagonisti del secondo conflitto. E sì che tedeschi e sovietici hanno scatenato anche bestioni da 60 tonnellate e più.
In realtà, avevamo ragione entrambi, perché uno faceva riferimento al metro di valutazione italiano, mentre l’altro a quello internazionale.
Nel 1938, una circolare del Ministero della guerra classificava i nostri carri armati in ragione del peso: leggeri (L) fino a 5 tonnellate, medi (M) fino a 15t, pesanti (P) oltre le 15t. Invece, la classificazione NATO, sviluppando quella prevalente ottant’anni fa, distingue gli L fino a 25t dagli M fino a 50. Oltre, diventano Pesanti.
L’M4 Sherman, perciò, pur con le sue 30,3t, i cinque uomini di equipaggio, un cannone non meno di 75mm e tre mitragliatrici una delle quali da 12,7mm, resta un carro medio. Al confronto, impallidiscono i Fiat Ansaldo M13/1940 ed M15/1942, per noi medi, in realtà grandi carri leggeri fuori standard.
Erano armati con un pezzo da 47mm in torretta, ma il semovente 75/8 ne montava uno molto buono da 75mm, che faceva di quel mezzo un cannone cingolato, da 13,1t, impiegato come “buon cacciacarri” nel deserto nordafricano.
È evidente, secondo l’autore, che i carri armati italiani non si possano considerare tra gli armamenti migliori del Regio Esercito, sebbene i principali modelli non fossero tanto lontani dagli altri Paesi. Ricorsero anche valide costruzioni, come le autoblindo del tipo AB.40, semoventi d’assalto sulla meccanica dei carri M.
“Paradossalmente”, il mezzo che riscosse maggiore successo e diffusione all’estero fu il carro leggerissimo, CV (carro veloce).
Al suo tempo offriva prestazioni oneste ed era più che accettabile dal punto di vista meccanico e ingegneristico. Il problema era il ruolo al quale sarebbe stato più adatto, certo non da carro d’assalto come venne usato, non avendo l’armamento e la velocità per compiere azioni di sfondamento.
Era stato progettato su specifiche dello Stato Maggiore del Regio Esercito come veicolo da combattimento a difesa delle frontiere alpine e capace di operare sulle ambe del Corno d’Africa. Piccolo e agile, per accompagnare la fanteria anche su sentieri impervi. Veloce, per svolgere missioni di ricognizione e compiti di cavalleria.
Venne sacrificato contro i primi carri (non eccezionali) di fabbricazione russa trasferiti ai repubblicani nella Guerra civile spagnola e i pur obsoleti Matilda britannici nel deserto. Li avrebbero opposti perfino ai terribili T34 sovietici, se la steppa russa non li avesse pressoché all’istante inabilitati.
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