I frutti dell’Ayurveda nella giungla di Mumbai
- Autore: Iacopo De Rossi
- Genere: Letteratura di viaggio
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2020
Ayurveda, la scienza della durata della vita, la medicina naturale più antica della storia. In India, l’ottanta per cento della popolazione ne fa uso abitualmente. In Italia certamente può vantare un appassionato virtuale, Ivano, proiezione narrativa di un cultore reale, Iacopo, che a un tiro da Bologna, in Valsamoggia, divide il suo tempo tra affetti, orto e pratica ayurvedica. Ivano è il giovane protagonista del soggiorno in India raccontato da Iacopo De Rossi nel romanzo I frutti dell’Ayurveda nella giungla di Mumbai, pubblicato a luglio 2020 dalla casa editrice Epika di Lorella Fontanelli (Castello di Valsamoggia, 290 pagine). È un percorso d’iniziazione all’antichissima medicina biosostenibile e un diario di viaggio nel subcontinente indiano, con incipit alcolico nell’aeroporto di Dubai.
1994: in volo verso l’India con l’amico Né — diminutivo del bolognese dott. Nelli — per raggiungere un maestro ayurvedico e seguirne gli insegnamenti teorici e pratici, Ivano mette piede sul suolo dell’Emirato senza poter dire di averlo visitato. Trascorre l’intero scalo nella cella dell’aeroporto emiratino, per via di una sbronza, favorita dalle repliche generose della stessa hostess che lo ha denunciato alla Security.
L’impatto con la realtà di Mumbai, a parte l’aria stantia di afa, spezie e dolciastro che la pervade, è interessante per lui e per i lettori. Gran parte della storia si sviluppa intorno all’Ayurveda, ai suoi significati e tecniche, ma dai siparietti di vita quotidiana spesso divertenti e dagli incontri con uomini e donne uno più singolare dell’altra c’è da imparare tanto e riflettere ancora di più, nelle pagine di Iacopo De Rossi.
Si prenda lo spaccato di una realtà sociale che ha poco a che vedere con quella occidentale e ancora meno con la nostra quotidianità. Ivano alloggia in un quartiere periferico di Mumbai — la Bombay degli anglofoni e dei romanzi d’avventura — che costeggia uno Sloom, una baraccopoli della città sconfinata.
“Di qua noi, non ricchi, di là loro, quelli veramente poveri, che sì e no hanno riso e acqua”.
Dalla strada la bidonville è invisibile, nascosta da cartelloni pubblicitari, siepi e ogni sorta di materiale accatastato per nascondere.
“Quella gente si vergogna di quello che è, ma da quassù anche io provo vergogna per come vivono”.
Il giovane emiliano osserva nel 1994, ma Iacopo ha scritto di recente e sotto tanti aspetti lo scenario attuale potrebbe risultare ancora più contraddittorio e affollato di allora. Mamme lavano i bambini nelle pozzanghere e donne cucinano, sciacquano, stirano, apparecchiano, fanno tutto quello che si fa in una casa. Si muovono però in una baracca fatta di cenci e con la terra per pavimento.
Animali di ogni specie e grandezza lasciano dovunque deiezioni di varia misura: piccole del pollame, consistenti di cani, maiali e scimmie, alte una spanna di vacche e cavalli. Tutto materiale che ha una vita ulteriore, almeno quello che non finisce sotto i piedi nudi di bambini e ragazzini. In un tanfo immaginabile, le donne se lo contendono, raccolgono, schiacciano con le mani, per essiccarlo al sole e usarlo come carburante domestico.
Intorno corrono topi, che spariscono solo quando sui panni stesi volano falchi e corvi.
Gli uomini residenti sono gli operai del nuovo quartiere in costruzione. Lo tirano letteralmente su, arrampicandosi su ponteggi precari di canne di bambù intrecciate. Issano calcestruzzo scambiandolo da una testa l’altra e da un piano a quello superiore. Lavoro pesantissimo, che procede con una flemma terrificante. E tutto senza una carriola che sia una. Un attrezzo accorcerebbe i tempi, ma il risparmio di giornate cancellerebbe anche il salario per qualche famiglia. Nessuno se lo può permettere.
Un altro mondo. Ivano riconosce di non avere più voglia d’affacciarsi alla finestra. Non è abituato “a queste sproporzionate diversità”. Con il suo bagaglio “occidentale” è arrivato nel paradiso dei guru, degli asceti, della filosofia, del Karma, ma vede solo “l’inferno”.
E scopre i matrimoni in età prepubere. Una bimba del vicinato piange tutta la notte, consolata da una voce femminile più matura. Singhiozza, strilla, costringe il giovane italiano a mettere tappi artigianali nelle orecchie. Gli sembra la veglia di un funerale, ma è quella di un matrimonio. È una bambina indù che deve andare sposa. Non può che avere dieci anni, al più undici, perché dopo sarebbe considerata vecchia. A quindici anni nessuno la vorrebbe più. Invece un maschio quindicenne è troppo giovane, deve attendere i trenta.
Ha motivo la piccola di piangere, se deve unirsi a uno che ha non meno del doppio della sua età. È una delle contraddizioni di una cultura antichissima, che predica una saggezza senza tempo, ma si attarda in quelle che ai nostro occhi sembrano autentiche crudeltà sociali.
E dire che l’Ayurveda considera tutti gli aspetti del benessere, fisico, psicologico, e spirituale. Contempla la diagnostica, la prevenzione e la cura, non trascura l’alimentazione, si preoccupa dell’equilibrio tra corpo e mente, suggerisce uno stile di vita improntato al rispetto del legame naturale tra l’uomo e la natura.
Ha origini remotissime, il primo testo scritto risale al VI-VII secolo avanti Cristo. È un’antica saggezza che individua le malattie e prevede le terapie: purificazione, massaggi, esercizio fisico... Anche se tutto intorno non va come dovrebbe.
I frutti dell'Ayurveda nella giungla di Mumbai
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