I rami, i morti, i canti
- Autore: Francesca Saladino
- Categoria: Poesia
- Anno di pubblicazione: 2023
I rami, i morti, i canti di Francesca Saladino (Samuele Editore, pp.76, 2023, prefazione di Eleonora Rimolo) è una silloge dolorosa che, partendo da eventi personali, allarga il discorso alle ferite del mondo, specialmente quelle degli ultimi anni, come l’autrice sottolinea in una nota a fine libro.
Il pensiero va a Salvatore Quasimodo, ai suoi versi E come potevamo noi cantare / con il piede straniero sopra il cuore, contenuti in Giorno dopo giorno.
Anche nei versi di Saladino, paradossalmente le parole sono colme di silenzio; esprime la fatica di esprimersi e non solo, c’è perfino la scomparsa di sé:
Ho provato a lasciarti / e ho dovuto lanciarmi, / perché il corpo va dove deve / anche se l’anima non può. / La mia sofferenza / è l’inappartenenza.
E ancora :
La mia bocca è una cassa da morto / e non c’è nessun fiore, fuori.
il dolore di un parto, / il dolore di un lutto.
I piedi sopra il cuore possono essere tanti, sia individuali che collettivi. Qui si tratta della fine di un rapporto affettivo, il cui silenzio conseguente si estende, diventa simbolo storico, va a ritroso anche di secoli:
Ci sono stanze / di silenzi chiusi a chiave / in cui dimorano spazi / grandi quasi due secoli, / e sono immensi e nascosti / dalle madri e dai padri, / di quadri dell’inquietudine.
Consolante è la natura, ma in parte; sono gli alberi a cui la poetessa parla, gli animali, ma anche gli alberi hanno rami spezzati da cui cola la resina ed emettono un lamento.
Si tratta di un pessimismo universale, cosmico come quello di Leopardi, non totale, Saladino se ne fa carico:
La mia tristezza non t’appartiene, / è la tristezza del mondo / ad abitarmi.
Se il dolore è maestro, di cui il Signore è effige:
Ciò che non voglio / è il vivo disincanto. / Il mio signore è oggi di ritorno, / polsi legati in nastri rossi, / […] il mio immenso profondo cuore / è servo e prigione di guerra / del cornuto e severo cervo padrone: / mio Dolore, mio maestro / mio dolce signore.
Molti sono i versi pieni di amarezza e anche di vendetta, oltre a quelli con desiderio di perdono. L’ambivalenza è comprensibile. Più pesante è invece la costatazione dei rapporti umani creatisi attualmente, oppure sempre esistiti?
Il silenzio qui pare un suono / che invita l’assenza a guardarsi bene: / è un usarsi a vicenda / per non sentirsi distrutti.
È la morte dell’anima, forse il vero disincanto. Usarsi a vicenda è l’opposto dell’agape, una disfatta dei legami. Ciò non significa che l’artista acconsenta.
Il suo è il canto di una prefica, secondo le antiche usanze della cultura mediterranea, che guarda in faccia la morte, in tutte le sue accezioni, le parla, la contrasta, le urla le ragioni della vita. Nella sua spiegazione finale, scrive in prosa:
Ad accompagnare la mia riflessione ho avuto la presenza costante e ciclica della morte, intesa come cambiamento. Una rinascita data dalla riscoperta di sé e del mondo, da celebrare sulla strada per ritrovare la meraviglia.
In conclusione dunque, non silenzio ma canto. Esistere ha una sua estasi intrinseca, che la meraviglia testimonia senza mai finire; si rigenera dopo periodi di crisi, necessari ad acquisire autocoscienza.
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