I sette giorni di Avraham Bogatir
- Autore: György G. Kardos
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: E/O
- Anno di pubblicazione: 2023
Un romanzo racchiuso in una settimana e non è tanto per dire o per titolare. Sette giorni esatti, in continuità cronologica, ora dopo ora, nel 1947, a Beer Tuvia, nella Palestina centrale sotto amministrazione mandataria britannica, con gli ebrei già in conflitto con gli arabi, ma non ancora cittadini dello Stato d’Israele (l’ONU sancirà l’indipendenza solo nel maggio successivo).
“Prima metà del Novecento, tanti destini incrociati, una sola terra, una storia illuminante”
Si legge sotto il titolo I sette giorni di Avragam Bogatir. La nuova edizione dell’opera narrativa dell’ungherese Gyorgy G. Kardos è da qualche mese nella collana “Dal Mondo” delle romane Edizioni E/O (dicembre 2023, 384 pagine), tradotta dal magiaro da Elena Matacena e a cura di Luca Todeschi Negri.
La pubblicazione originale risale al 1968, la prima in Italia al 1988.
Un libro tornato di stretta attualità, mentre infuria l’operazione israeliana contro Hamas a Gaza, dopo le incursioni del 7 ottobre. È la quotidianità - già esasperata dagli eventi conflittuali di allora - di un ebreo tra gli ebrei, contro i palestinesi e alla larga dagli inglesi, che esercitavano funzioni di polizia, di controllo, di prevenzione, riuscendo a rendersi ostili tanto agli uni che agli altri contendenti. Il testo narrativo è intercalato da espressioni in yiddish, l’antico dialetto delle comunità ebraiche europee centro orientali, tradotte in italiano nelle note a piè di pagina.
Nato e morto a Budapest, 1925-1997, scrittore, giornalista e drammaturgo di religione ebraica, Kardos parlava otto lingue, compresa la nostra. Venne deportato nel campo di lavoro di Bor, a Belgrado, il 10 maggio 1944, giorno del diciannovesimo compleanno, ma prima della fine dell’anno i partigiani jugoslavi liberarono il lager e il giovane György G. Kardos raggiunse la Palestina, per arruolarsi nell’esercito.
Ha raccontato le sue esperienze in Israele in tre romanzi tra il 1968, il 1971 Dove sono finiti i soldati? e il 1977 La fine della storia. Tornato in Ungheria nel 1951 e considerato elemento sospetto, trovò prima occupazione solo da muratore. Tra il 1955 e il 1956 lavorò come drammaturgo nel Teatro di Győr e tra il 1958-1965 e il 1972-1974 nel Teatro statale delle marionette, collaborando intanto con la Radio ungherese, per la letteratura. Autore di testi e redattore teatrale, scrisse numerosi libretti di operette e fiabe, oltre a diverse sceneggiature cinematografiche, vincendo il premio Nívó.
Nell’ultimo decennio di vita fu redattore di prosa per la rivista “Élét és Irodalom" e collaboratore del Kurír. Il cursus honorum: 1978 Premio Attila József; 1984 Premio Tibor Déry; 1992 Penna d’oro; 1993 Premio Gyula Krúdy; 1995 Premio Letteratura; 1997 Premio Sándor Márai.
Il tema del romanzo, che gli era tanto congeniale, oggi è scomodo. Per non incorrere in passi falsi involontari e non volendo suscitare perplessità, glisseremo totalmente sui contenuti che riguardano lo scontro tra ebrei e palestinesi. Del resto, ci sono tanti altri motivi d’interesse in quello che Kardos rivela sulla compagine correligionaria e tuttavia multietnica ed eterogenea, formata nella Terra promessa da ebrei europei, da reduci dei campi di concentramento nazisti, da immigrati provenienti da altri continenti e dai pochi israeliti già residenti. Ogni gruppo resta legato alla propria provenienza dalle rispettive esperienze e tradizioni, costituendo enclave quasi esclusive, articolando modi radicalmente diversi di vedere la realtà, alcuni molto evoluti, altri addirittura retrogradi. Un universitario polacco non ha niente in comune con la famiglia del pastore del deserto.
L’europeo di città e il trapiantato dagli Stati Uniti non condividono nemmeno la lingua con il profugo dal Mar Rosso.
Si può cogliere che i nati in Palestina vengono indicati come Sabre (fiore di cactus), che Israele era ed è Erez, che i non circoncisi e chi non è battezzato ebreo vengono chiamati gojim.
Erano composite anche le formazioni sioniste, distinte tra l’Agenzia ebraica di Ben Gurion, che amministrava la comunità israelita e l’organizzazione paramilitare Haganah - da cui nascerà l’esercito, IDF (Israel Defence Force) - a sua volta articolata nei reparti d’assalto del Palmach. Si distingueva anche l’Irgun, il braccio eversivo, un’organizzazione dedita ad attività terroristiche contro inglesi e arabi.
Nelle pagine, seguendo il protagonista Avraham Bogatir, sarà più facile trovare esempi di spontanea coabitazione tra vicini di fedi diverse che rapporti non conflittuali tra correligionari. Contadini arabi convivono con gli ebrei, a differenza degli ebrei stessi tra loro, più o meno fanatici, più o meno radicali, più o meno ortodossi, più o meno votati alla logica dello scontro, sia pure per la sopravvivenza.
Tutto attraverso Bogatir, che conduce sì battaglie, ma sono quelle di tutti i giorni contro le pietre della Galilea che rendono sterili i campi, il caldo rovente che fiacca chi lavora, la polvere del Negev che toglie il fiato. Avraham si è lasciato alle spalle una vita travagliata in Russia e dopo trentacinque anni di lavoro nella campagna palestinese è orgoglioso del suo appezzamento nella fattoria collettiva di Beer Tuvia, che divide con altri coloni, arrivati da varie parti del mondo.
Della famiglia, gli restano un figlio ventenne, sconvolto dall’orrore dell’Olocausto nazista e fuori di testa per la morte del fratello maggiore, stroncato da una mina in un’esercitazione col Palmach. La moglie è invecchiata precocemente per la vita dura e le avversità patite.
Qualche barlume di speranza si affida alla figlia iperattiva, spirito indomito, ribelle.
I sette giorni di Avraham Bogatir
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