Il lascito lirico di Corrado Govoni. Dal crepuscolo sul Po agli influssi emiliani
- Autore: Matteo Bianchi
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Mimesis
- Anno di pubblicazione: 2023
Il lascito di un poeta è sempre un dono, destinato sia alla comunità che alla sensibilità e intimità del singolo. Ogni lascito ha attinenza con la memoria, quindi con il passato, ma non solo; quando il poeta diventa profeta (ed è questa la visione di Carlo Bo) lascia una scia di luminose intuizioni che saranno fruttuose nel futuro. Una terza caratteristica è un lascito "per sempre", ovvero così universale e inamovibile che travalica le contingenze temporali e nella sua lirica, come in uno specchio borgesiano, si ritrovano immagini e tematiche attinenti a ciò che chiamiamo "humanitas", il nucleo del nostro essere.
A volte per ritrovarlo è necessario farsi eremiti, ciò comporta l’insofferenza verso l’aria che tira nel momento, genera incomprensioni o critiche limitanti, che possono mutare con uno sguardo più profondo e allargato.
Il lascito lirico di Corrado Govoni. Dal crepuscolo sul Po agli influssi emiliani di Matteo Bianchi (Mimesis edizioni, pp.198, 2023) affronta i punti sopra elencati.
Il giovane critico, laureato con specializzazione in filologia all’università Ca’ Foscari a Venezia con una tesi dedicata a Govoni, è giornalista freelance (scrive su Il sole 24 ore e altre testate, cura Pordenonelegge.it), poeta egli stesso, ferrarese. Possiede i requisiti culturali per sviscerare l’argomento, con in più lo slancio emotivo senza il quale non si attua la penetrazione, direi compenetrazione, tra studioso, critico e artista preso in visione.
L’indagine letteraria di Bianchi si estende e dilata ai poeti e agli artisti, anche pittori di chiara fama, contemporanei al poeta e post govoniani del territorio, animando quest’ultimo di un afflato unificante, con le dovute distinzioni e differenziazioni, considerato sia dal punto di vista storico che geografico e spirituale.
Il crepuscolarismo viene di solito inteso come ripiegamento, ma non solo; tanto è avvenuto a Govoni (1884 - 1965), specialmente dopo l’assassinio del figlio Aladino da parte dei nazisti nel truce episodio delle Fosse Ardeatine, nel 1944.
Il poeta non è stato un professore, ma un impiegato del Sindacato Artisti a Roma durante il fascismo. Ha avvicinato il futurismo, De Pisis, de Chirico, i metafisici, per staccarsene, alieno dai gruppi. Ha vissuto il trapasso di fine secolo e affrontato i fermenti del Novecento, il nichilismo, che lo caratterizza solo in parte, rimanendo sempre legato alla terra, elemento valoriale della "Magna Mater" secondo il dettato pascoliano che attraversa tutta la sua opera. E non abbiamo forse oggi bisogno di questo? Giacinto Spagnoletti (mentore anche di Alda Merini) è stato il suo critico più lungimirante.
Di Govoni Montale scrive che è un "puer" con gli occhioni sgranati, ma differente dal fanciullino di Pascoli, il quale è un erudito. Il "puer" Govoni, a detta del grande poeta e critico:
Altro temperamento e di minori studi, poco o punto dotato di educazione umanistica, ingigantiva le sue infantili visioni, vedeva la natura al pantografo.
Con rispetto mi permetto di dissentire, tanto più che dal giudizio sembra che i minori studi determinino "ipso facto" una visione inesatta, quasi attraverso uno strumento, quindi meccanica. Con un esempio, è come se per amare la luna e sentirne gli influssi avessimo necessariamente bisogno di un cannocchiale. Vero è invece che il mondo appare al fanciullo sempre ingigantito, meraviglioso.
Esiste il meraviglioso nel piccolo mondo del nostro artista? Certo, per esempio il grido del gallo, e molte altre scene espressionistiche.
Ecco la sua dichiarazione di poetica, melanconica ma dolcissima, frutto del suo temperamento:
Ho sempre amato le cose tristi, la musica girovaga, i canti d’amore cantati dai vecchi nelle osterie, le preghiere delle suore, i mendichi pittorescamente stracciati e malati, i convalescenti, gli autunni melanconici pieni di addii, le primavere nei collegi quasi timorose, le campane magnetiche, le chiese dove piangono indifferentemente i ceri, le rose che si sfogliano sugli altarini nei canti delle vie deserte in cui cresce l’erba; tutte le cose tristi della religione, le cose tristi dell’amore, le cose tristi del lavoro, le cose tristi delle miserie.
Parlarne esorcizza e trasmuta il dolore. Le sue liriche sono intessute di famiglia, di campagna, di purezza panica panteistica, sperimentata istintivamente, oltre il suo cattolicesimo. È la religiosità contadina, tanto cara a Pasolini. Ricordo qui che gran parte della Bibbia si basa sulla contrapposizione tra città e campagna (è Caino a fondare le città), contrasto oggi portato al suo limite.
Ferrara è una città diversa, lontanissima dalle megalopoli; diventa il simbolo, che Bianchi tratteggia con riferimenti storici ma pure fantastici, sognanti, legati al filone metafisico. È “l’hortus conclusus”, bastante a se stesso, quasi una sorta di paradiso terrestre, dove la vita è possibile, perché carica di bellezza e pace.
Alle spalle della città, nel passato, c’è la corte rinascimentale, quella degli Estensi, raffinatissima e colta; nel Rinascimento qui era nata una università. Il suo respiro arriva fino ad oggi. Bianchi afferma che Govoni non aveva piena consapevolezza del collegamento topografico tra antico e moderno, era privo della trasfigurazione dei de Chirico, i quali presero Ferrara come topos delle loro meditazioni letterarie e pittoriche. Sottolinea l’importanza di forti presenze culturali legate al paesaggio, leitmotiv. Cita Fuori Le Mura. Antologia di paesaggi letterari della pianura padana (1991), a cura di Monica Farnetti e Giorgio Rimondi, e I misteri della Bassa per terra acqua aria fuoco. Antologia della civiltà letteraria padana del Novecento (1982), a cura di Giovanni Negri.
Ferrara, di cui il paradigma è Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani, è atemporalità, come le poesie e le piazze di de Chirico. Ma ciò si apparenta, secondo me, con le piccole cose, volubili e ripetute, realtà oltre lo sguardo che le eterna.
Ecco Govoni minimo e pur grande:
Da ogni parte le campane / suonano il mezzogiorno, / come morbide zane / che vogliano cullare il giorno. / Nella cucina il vecchio pendolo / scatta. Il micio è andato fuori. / Giù, nella via, un fruttivendolo / grida – bei pomi, cavoli fiori! – /
Il moro del caminetto / ascolta la sua trottola di gesso. / Mia madre sta facendo il letto. / Io mi sono alzato adesso. / Ed è sabato, la vigilia / di Domenica. I raggi del sole sbiadiscono. / Il calendario nota vigilia. / Passa un birroccio. I vetri abbrividiscono." ( dalla raccolta “Fuochi artificiali”, 1905)
È come un lungo haiku, ne ha lo spirito. Unione di trascendenza e immanenza.
“Orto concluso” e suggestione del paesaggio senza tempo è pure la nebbia padana, di cui Fellini ha fornito una memorabile scena in Amarcord. Nel film la nebbia è anticamera della morte e dell’oltre.
Nel quarto capitolo del libro Matteo Bianchi, analizzando le ferite esteriori e spirituali provocate dal terremoto in Emilia Romagna del 2012, ribadisce come l’amore per il territorio sia il collante, lo stimolo poetico e concreto vincente, ieri come oggi. Nel dolore si ricostruisce l’ecumene.
Govoni lo aveva fatto. Questo è il lascito poetico essenziale che si riversa nella nuova generazione di artisti.
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