Sapete qual è il peggiore dei peccati che un uomo possa commettere? La risposta ce la dà il premio Nobel argentino Jorge Luis Borges nella poesia Il rimorso.
I suoi versi sono una perfetta sintesi di pensiero sapienziale, spietati e luminosi nella loro capacità di mettere in luce l’aspetto più torbido, oscuro e sfuggente della vita: l’ostinata ricerca della felicità.
Una delle grandi contraddizioni insite nella natura umana è proprio questo pertinace desiderio di felicità - la ragione che ci spinge a vivere, il costante senso di attesa in cui siamo invincibilmente intrappolati - che viene sempre negato dalle molteplici ragioni del quotidiano, dalle piccole insoddisfazioni, dalla patina di noia dell’abitudine, sembra di essere sempre a un passo dalla felicità, di vederla vibrare come una farfalla dalle ali battenti davanti ai nostri occhi, ma non riuscire mai a raggiungerla. Continuamente ci sfugge e acuisce in noi un senso strano di amarezza, di irresolutezza, come un rimorso.
Nella poesia El remordimiento, Jorge Luis Borges parla proprio di questo, del peccato peggiore che un uomo possa commettere: non essere felice su questa terra. La lirica è contenuta nella raccolta La moneta di ferro (Milano, Adelphi, 2006), edita per la prima volta in Argentina nel 1976 con il titolo La moneda de hierro.
El remordimiento, Il rimorso, fu pubblicata per la prima volta sulle pagine del quotidiano La Nación di Buenos Aires il 21 settembre 1975.
Nell’originale spagnolo iniziava così:
He cometido el peor de los pecados
que un hombre puede cometer. No he sido
feliz.
Scopriamone testo, analisi e commento di questa poesia che fu scritta da Borges in un momento molto particolare della sua vita.
“Il rimorso” di Jorge Luis Borges: testo
Ho commesso il peggiore dei peccati
che un uomo possa commettere. Non sono stato
felice. Che i ghiacciai dell’oblio
possano travolgermi e disperdermi, senza pietà.I miei mi generarono per il gioco
rischioso e stupendo della vita,
per la terra, l’acqua, l’aria, il fuoco.
Li frodai. Non fui felice. Realizzatonon fu la giovane loro volontà. La mia mente
si applicò alle simmetriche ostinatezze
dell’arte che intreccia inezie.Ereditai valore. Non fui valoroso.
Non mi abbandona, mi sta sempre a lato
l’ombra d’essere stato un disgraziato.
“Il rimorso” di Jorge Luis Borges: analisi e commento
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In un’intervista rilasciata nel 1980 a Joaquín Soler Serrano, Borges raccontò di aver scritto Il rimorso in un momento delicato della propria vita, quattro giorni dopo la morte della madre.
Leonor Acevedo de Borges morì l’8 luglio 1975, all’età di novantanove anni. Era stata la presenza più importante e significativa nella vita di Borges e la sua scomparsa, nonostante la veneranda età, gettò il poeta in un dolore profondo, facendogli sperimentare un vero e proprio smarrimento esistenziale. Con la morte di Leonor si spegneva per sempre una luce. Per questo motivo i versi risuonano in maniera così dolorosa, si amplificano in noi come un’eco drammaticamente cupa, erano dettati da un dolore profondo, sgorgavano come sangue dalla ferita di una perdita incolmabile.
Nei versi de Il rimorso , Jorge Luis Borges si trova a riflettere su uno degli eventi capitali nella vita di un uomo: la propria nascita. Chi di noi non si pone, nel corso della vita, quella fatale domanda: perché sono nato? Ce lo chiediamo fin da bambini e spesso la poniamo alle nostre madri, che immancabilmente hanno sempre la risposta giusta e ci raccontano persino l’istante, il momento in cui siamo venuti al mondo, e il sorriso di gioia che loro ci hanno rivolto accogliendoci. Ma nel momento in cui loro, le madri che ci hanno dato la vita, vengono a mancare, chi ci darà la risposta giusta a quella domanda? Chi ci restituirà il sorriso?
Deve essere stato questo interrogativo schiacciante a far capitolare Borges, a provocarlo e, infine, a dettare l’angoscia che ritroviamo vibrante in ogni riga di questa poesia. La perdita della madre lo conduce a rivalutare il patto contratto con la propria nascita: tutti i genitori si aspettano dai propri figli la felicità e augurano loro, sopra ogni cosa, la felicità.
Alla morte della madre con sgomento l’autore ammette: “non sono stato felice”, il che equivale a dire “ti ho deluso, madre”. Fa riferimento al fatto di essere stato generato, quindi voluto, per compiere il gioco “rischioso e stupendo” della vita. Borges sente di aver fallito come uomo per non aver realizzato il comandato supremo che era stato chiamato ad assolvere: essere felice. Ma d’altronde quale uomo ci riesce? Si può forse essere soddisfatti, a volte sereni; la felicità invece è un bene fuggevole, transitorio.
In realtà qui Jorge Luis Borges fa un riferimento preciso: menziona la sua mente che a lungo si è applicata in “simmetriche ostinatezze”, dunque alla scrittura e alla poesia; ed è stata questa ricerca dell’arte, la poesia stessa, che l’ha allontanato dalla felicità semplice, ovvia, quotidiana. In tutte le sue poesie, nei suoi scritti, l’autore premio Nobel celebra i pochi che riescono a raggiungere la felicità “Felici i felici”, scrive.
I duri e lapidari versi de Il rimorso sono apparentemente in contrasto con la consueta serenità di Borges, ben esplicitata tra l’altro in altre poesie celebri come Altra poesia dei doni, ma in realtà ne rappresentano il completamento, perché Borges in questi versi ci dice che l’infelicità è un peccato. Questa affermazione non è da intendere in senso cristiano, naturalmente, perché Jorge Luis Borges era agnostico e sosteneva che il dolore di Cristo in croce lo commuoveva, ma era un dolore inutile, perché non salvava nessuno dai propri dolori; l’affermazione “Ho commesso il peggiore dei peccati che un uomo possa commettere: non sono stato felice” troviamo la sintesi di un pensiero sapienziale, degno di figurare in un testo sacro.
La bellezza, così come la felicità è frequente, come scrive Borges in un’altra poesia: dobbiamo solo imparare a riconoscerla e vederla, prima che sia troppo tardi.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Il rimorso”, la poesia di Jorge Luis Borges: qual è il peggiore dei peccati?
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