Da Caltanissetta, l’11 dicembre 1947, il ventiseienne Leonardo Sciascia, impiegato al Consorzio agrario di Racalmuto, indirizza una lettera a Elio Vittorini, in cui scrive di avere già inviato per il Politecnico settimanale, da lui diretto, qualcosa da pubblicare.
Questi, rispondendogli, gli aveva promesso che se ne sarebbe occupato. Poiché da allora il giornale ebbe un’indecisione editoriale, auspicando una sua regolarità, gli inviava ora un breve manoscritto:
Sicuro che, anche quando non troverà posto nella rivista, tu vorrai rispondermi e consigliarmi.
L’ipotesi avanzata dallo studioso Antonio Motta sembra credibile. È probabile che Vittorini non abbia letto né la lettera né il dattiloscritto, giacché impegnato in una mole di lavoro. In ogni caso, col numero “39” di quello stesso dicembre 1947 era cessata la pubblicazione del Politecnico.
Il racconto inviato è Il signor T protegge il paese (Appunti per una storia): il primo scritto di Sciascia che comprende argomenti rinvenibili nella sua posteriore scrittura: il personaggio e la morte, le manifestazioni del potere, la presenza autobiografica, la religione, nonché la passione per l’ambiente, i profitti in una terra desolata, il giallo.
A parlarne è Paolo Squillacioti che, è noto, ha curato la pubblicazione dei racconti di Sciascia nell’opera Il fuoco nel mare (Milano, Adelphi, 2010).
Il signor T protegge il paese: analisi del racconto di Sciascia
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La biografia del signor T è contestualizzata in un paese d’antiche origini di cui non viene fatto il nome, ma che viene descritto come luogo di zolfatari:
I saraceni che amavano i luoghi vivi d’acque, si vuole abbiano posto una prima traccia di borgata ancor più in fondo alla valle, dov’è oggi una campagna che alimenta il paese di verdure e di agrumi e che viene, appunto, denominata Saraceno.
Ex fascista, il signor T è abbastanza ricco da tenere in mano:
Le case con tutti i tredicimila abitanti, come il san Biagio protettore che è qui dipinto in una sacrestia.
Ed era stato edificato:
dove aspramente comincia l’altipiano di un bianco salino, qua e là tumefatto dal rossiccio arso delle miniere. Così il paese resta povero di acqua, mentre le campagne dove ci si reca d’estate ne sono in prevalenza ricche.
La rappresentazione di costui è proprio un ritratto ingrandito, steso con un’osservazione minuziosa: un personaggio che potrebbe dirsi senza qualità particolar: “di decorosa stupidità” e “di una stupidità miniata”.
Astuto tuttavia nei rapporti e capace di poter disporre del paese a suo piacimento. Frequenti i mutamenti di scenari storici in cui appaiono altri personaggi. Delizioso il bozzetto quando dopo lo sbarco degli americani in Sicilia, nell’agosto del ‘43 una compagnia di genieri americani aveva scelto di accamparsi al Saraceno (due anni dopo
Sciascia scriverà il racconto Kermesse sullo sbarco degli americani tra Gela e Licata). La descrizione si conclude con il gattopardismo che si manifesta nel passaggio dal regime fascista al grido di evviva all’America. Protagonista, nella parte centrale, è suo nonno Giacomo Evaristo, di cui il signor T porta i due nomi.
Scrive Sciascia:
Nella notte che portò al 12 gennaio del 1851 fu per il paese folta di fatti violenti e pietosi; i quali infine si gonfiarono in una grottesca e rumorosa sgorbiatura.
L’uccisione del campiere Benedetto Lo Vetro e altri fatti erano accaduti in una “oscurissima” notte, dove addirittura una mula, uscita dalla stalla e fermatasi davanti al portone della gendarmeria, veniva scambiata per un criminale. Nelle stesse ore in cui si sparava, il nonno del signor T riceveva una visita. Apprendiamo dal narrante, conoscitore dei fatti (“il mio bisnonno pagava gli operai che lavoravano per don Giacomo”), che era considerato il più ricco del paese; assolto per insufficienza di prove per un omicidio, era ritornato libero dopo dodici mesi di carcere; se le zolfare andavano dissanguandosi, lo sviluppo delle saline era costante, ed era lui era a possederle nel territorio.
Non si può non accennare a don Gaspare Martinez, accostato a Pirandello per alcuni suoi tratti fisici:
Avevo visto su qualche giornale il ritratto di Pirandello (gli occhi stanchi e al tempo stesso vivi, il pizzo che in quel volto saggio mi segnava un’intesa ribelle, le vene nitide sul dorso della mano): e la rassomiglianza col ritratto di don Gaspare mi apparve perfetta.
Aveva dotato il paese di un teatro e da investigatore era stato lui a dimostrare la colpevolezza di don Giacomo. Tre figli maschi aveva don Giacomo Evaristo: il più grande studiava a Palermo per diventare avvocato e gli altri due si interessavano invece degli affari del padre. Morto nell’agosto del ‘91, i figli divisero la consistente eredità.
Il culmine dell’itinerario è dato dalla presenza della malavita:
A poco a poco la mafia, che in quel tempo andava prendendo coscienza di essere l’unica cosa viva dell’isola, si accagliò tenacemente intorno a loro. I latitanti svernavano nelle loro masserie, proteggevano i loro raccolti da quei piccoli ladri che con dispregio vengono denominati, dai ladri più grandi, scassapagliai.
Don Ferdinando appariva il migliore dei figli; il signor T suo figlio, all’età di tredici anni, dietro al carro funebre che lo trasporta l’accompagna al cimitero.
Il racconto finisce col possesso dei beni da parte dello zio don Michele: è questo il segno della faccia oscura delle cose insita nel buio di anime avide e cupe:
Ma c’è tempo che don Michele muoia, perché il signor T erediti, sposi una brutta donna ricca. C’è tempo perché sua figlia si innamori di un carabiniere, perché, dopo un bel viaggio, per distrarla, il signor T la sposi a un ingegnere ricco; perché la figlia tradisca il marito. C’è tempo. C’è tempo...
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In sostanza, questo racconto del primo Sciascia contiene uno schema che disegna caratteri e comportamenti. Egli, conducendo la scrittura alla musicalità della parola, si fa un esploratore di ambienti intorno alla varietà della condizione umana in un lungo periodo di tempo. Presenta un gruppo di figure con i loro destini intrecciati, narrati con stili diversi, e ne fa l’oggetto della sua “cronachetta” moralistica.
Scriveva Sciascia a Vittorini:
Sono appunti che avrebbero dovuto servire ad un disegno più costruito, più armonico; ma amici mi consigliano di lasciare così, come “appunti per una storia”.
La reiterata espressione del ”C’è tempo” può leggersi allora come predizione e presagio d’una successiva scrittura a partire dall’opera Le parrocchie di Regalpetra.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Il signor T protegge il paese” di Leonardo Sciascia: analisi e commento del racconto
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