La seguente novella di Luigi Pirandello va letta come partecipazione al dramma femminile nella società maschilista d’allora.
Da tredici anni Adriana Braggi non usciva più dalla casa antica, silenziosa come una badia, dove giovinetta era entrata sposa. Non la vedevano più nemmeno dietro le vetrate delle finestre i pochi passanti che di tanto in tanto salivano quell’erta via a sdrucciolo e mezza dirupata, così solitaria che l’erba vi cresceva tra i ciottoli a cespugli. A ventidueue anni, dopo quattro appena di matrimonio, con la morte del marito era quasi morta anche lei per il mondo. Ne aveva ora trentacinque, e vestiva ancora di nero, come il primo giorno della disgrazia […] Tuttavia, una serenità mesta e dolce le sorrideva nel volto pallido e delicato. Di questa clausura nessuno si maravigliava in quell’alta cittaduzza dell’interno della Sicilia, ove i rigidi costumi per poco non imponevano alla moglie di seguire nella tomba il marito. Dovevano le vedove starsene chiuse così in perpetuo lutto, fino alla morte.
È l’incipit della novella di Luigi Pirandello intitolata Il viaggio, pubblicata nell’ottobre 1910 nella rivista “Lettura” (poi in “Terzetti”, Milano 1912).
Adriana Braggi, il personaggio femminile che dopo la morte del marito vive in una completa solitudine, è l’emblema d’una condizione di segregazione rappresentata con l’acutezza dell’osservatore antropologo.
“Il viaggio”: analisi e commento della novella di Luigi Pirandello
Le donne delle poche famiglie signorili, sposate senza amore, erano allora “sottomesse” e “ubbidienti”; dedite come serve alle cure casalinghe, uscivano solo la domenica per andare a Messa e supinamente attendevano il rientro in casa dell’uomo-padrone. Non sfugge a Pirandello la triste condizione della donna in un ambiente di secolari pregiudizi patriarcali.
Accuratamente realistica è la descrizione, anche il paesaggio di quel paesino montano è visto in un grigiore selvatico colmo di immobilità. Se agli uomini non mancavano opportunità di distrazioni, erano le donne a rimanere vittime di quell’ambiente fortemente maschilista e repressivo. Adriana Braggi non aveva amato il marito per esserne stata oppressa da una rigorosa sorveglianza al punto che era: geloso fin anche del fratello maggiore, a cui sapeva d’aver fatto, sposando, un grave torto, anzi un vero tradimento.
Ora la presenza del cognato, Cesare Braggi, le è di sostegno, dedito alla casa e ai nipotini orfani: “uno di sedici, l’altro di quattordici anni”.
C’è un rapporto di comprensione tra loro e quando Adriana, dopo la morte della madre, mostra i sintomi di una grave malattia, questi la convince a farsi visitare da un medico di Palermo.
Era la prima volta che andava in treno e la descrizione del suo stato d’animo è insieme di piacere e smarrimento:
Si costringeva pertanto a frenare l’ilare ansia febbrile dello sguardo a non voltare il capo da un finestrino all’altro, come aveva la tentazione di fare per non perdere nulla delle tante cose, su cui i suoi occhi, così in fuga, si posavano un attimo per la prima volta. […] A ogni tratto, a ogni giro di ruota, aveva l’impressione di penetrare, d’avanzarsi in un mondo ignoto, che d’improvviso le si creava nello spirito con apparenze, che, per quanto le fossero vicine, pure le sembravano come lontane, e le davano insieme col piacere della loro vista, anche un senso di pena sottilissima e indefinibile: la pena ch’esse fossero sempre esistite oltre e fuori dell’esistenza e anche dell’immaginazione di lei; la pena d’esser tra loro estranea e di passaggio.
Il viaggio come simbolo nella novella di Pirandello
Il viaggio, quindi, si rivela come occasione di evasione per sfuggire all’alienazione e farle riacquistare la perduta libertà, allontanandola dalle ostilità ambientali.
Indossato l’abito acquistato per la partenza, ecco la metamorfosi di cui lei stessa si rende consapevole:
Quell’abito, disegnandole con procacissima eleganza i fianchi e il seno, le dava la sveltezza e l’aria d’una fanciulla. Si sentiva già vecchia: si ritrovò d’un tratto in quello specchio, giovane, bella; un’altra!.
Pirandello svolge la narrazione da fine psicologo, scruta nell’animo e ricava il massimo frutto da un raccontare che fa penetrare nell’intimo dei personaggi.
A Palermo Adriana comprende chiaramente la sua “prossima e inevitabile morte” dentro di lei, “appiattita là, sotto la scapola sinistra”.
Eppure, libera ormai dalla condizione servile, può abbandonarsi a una travolgente ricchezza sentimentale:
si sentiva lontana, lontana anche da se stessa, senza memoria né coscienza né pensiero, in una infinita lontananza di sogno.
Nel corso di un altro consulto a Napoli esplodono tra lei e il cognato intensi sentimenti.
È una dichiarazione di poetica l’abbandono al fantasticare rispetto alla cruda realtà; fantasticare è un importante riequilibratore ed è nel sogno che si manifesta la verità dell’anima. Sul piroscafo che li conduce a Napoli, lei:
di nuovo si sentì smarrire nel sogno, in un altro sogno meraviglioso […] E allora più che mai Adriana sentì crescersi dentro l’angoscia e lo sgomento di quella delizia che la rapiva e la traeva irresistibilmente a nascondere, esausta, la faccia sul petto di lui.
S’inserisce qui l’altro Pirandello tanto diverso dai cerebralismi: quello della tenerezza, affabilmente dolce. Per esempio viene da pensare alla sequenza, dove la consapevolezza del rapporto è acquisita dopo l’uscita da un caffè notturno:
Fu a Napoli, in un attimo, nell’uscire da un caffè-concerto, ove avevano cenato e passato la sera. Solito egli, nei suoi viaggi annuali, a uscire di notte da quei ritrovi con una donna sotto il braccio, nel porgerlo ora a lei, colse all’improvviso sotto il gran cappello nero piumato il guizzo d’uno sguardo acceso, e subito, quasi senza volerlo, diede col braccio al braccio di lei una stretta rapida e forte contro il suo petto. Fu tutto. L’incendio divampò. Là, al bujo, nella vettura che li riconduceva all’albergo, allacciati, con la bocca su la bocca insaziabilmente, si dissero tutto, in pochi momenti, tutto quello che egli or ora, in un attimo, in un lampo, al guizzo di quello sguardo aveva indovinato: tutta la vita di lei in tanti anni di silenzio e di martirio. Ella gli disse come sempre, sempre, senza volerlo, senza saperlo, lo avesse amato; e lui quanto da giovinetta la aveva desiderata, nel sogno di farla sua, così, sua! Sua!.
Amore e morte si fronteggiano nel loro rapporto ed è la silente presenza della morte a rendere dirompente la passione:
annidata in lei, con le sue trafitture, li fustigava, e fomentava l’ardore.
Aveva trovato il non posseduto fino ad allora: il gioioso amore ormai vissuto con abbandono totale. È a Venezia che si compie l’amaro destino; era lì che “il suo viaggio doveva aver fine”.
Il suicidio come discesa all’Ade è per lei una via di fuga, il rimedio per non rinunziare, tornata in paese, al grande sentimento che aveva scoperto e che nessuno, neanche i figli, avrebbe potuto comprendere. Non volendo tornare più indietro verso la vita di clausura, così lei decide di morire per non distruggere il sogno.
È noto che nella Morte a Venezia di Thomas Mann, racconto apparso nel 1913, la città lagunare, “ambigua” per eccellenza secondo la definizione di Georg Simmel, tornerà ad essere luogo di vita e di morte. Ed è facile immaginare quanto avrebbe apprezzato la novella di Pirandello se l’avesse conosciuta.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Il viaggio”: la novella femminista di Luigi Pirandello
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