Inclusioni. Estetica del capitalocene
- Autore: Nicolas Bourriaud
- Genere: Filosofia e Sociologia
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2020
“La crisi climatica, ormai riassunta con il termine antropocene, va di pari passo con una crisi planetaria della cultura. Cosa significa l’arte in un mondo dove predomina l’urgenza, un mondo che ormai esaurisce nel mese di luglio la quota annuale di risorse rinnovabili?” (p. 7)
È questo il grande interrogativo a cui cerca di rispondere il critico d’arte francese Nicolas Bourriaud nel suo saggio Inclusioni. Estetica del capitalocene, pubblicato in Italia da Postmedia Books (2020) nella traduzione di Stefano Castelli. Fin da subito risulta chiaro che non è possibile trovare una soluzione al problema, se non ci si pone nell’ottica di una contemporaneità in cui la "forza geologica" (p. 22) dell’essere umano modifica il pianeta, ne sfrutta le risorse e, sulla base di un capitalismo idealistico, che punta a stabilire un rapporto sempre più radicale "tra la realtà vivente e una sua traduzione che viene accettata sulla fiducia" (p. 22), aspira alla globalizzazione di un universo "liscio e piatto", nel quale l’uomo stesso viene collocato nella "posizione di una materia prima" (p. 25).
Ciò significa, in altre parole, che l’individuo stesso è ormai considerato una risorsa, lo spettatore di un mondo su scala sovra-umana, in cui l’omologazione a una norma culturale condivisa (e di dominio ancora oggi dell’occidente, "in ragione della sua superiorità tecnica", p. 28) passa dalla riduzione dell’empatia a una fruizione di immagini – intese in senso lato – sempre più rapide ed effimere, "che non si basano per niente sul passato e non desiderano nemmeno più durare" (p. 29). L’ultimo ventennio, così descritto, appare come la mortificazione dell’arte stessa, la sua negazione in favore di feticci semplici e semplificati, in cui lo spessore non è più (da nessun punto di vista) un requisito fondamentale, né tanto meno un valore.
Per resistere, quindi, l’arte deve innanzitutto creare "singolarità, scarti […], mescolanze di tradizioni e ibridi" (p. 28): laddove il capitalismo mira a spegnere ogni forza propulsiva, chi crea ha il compito, per non dire la missione, di creare "uno spazio mentale, un luogo di pensiero" (p. 31) capace in primis di durare e, se possibile, di inviare anche dei segnali, stabilendo in tal modo "una connessione tra la forza della natura e l’Uomo" (ibid.). Se c’è un elemento sempre meno cruciale nell’impostazione capitalistica dell’esistenza, del lavoro, dei dati digitali e della pratica tecnologica latu sensu, d’altronde, è proprio la vicinanza e l’inter-azione fra ánthrōpos e phýsis, fra frammentazione e sensorialità, fra inclusione e grammatica visiva.
Una priorità da superare in campo artistico, quindi, ma specialmente da un punto di vista filosofico, antropologico, sociologico, politico, ambientale: non esiste prodotto artistico, ovvero opera che si colloca in senso etimologico di fronte a sé in nome dell’arte medesima, senza rapporti tridimensionali, creoli e decolonizzati con l’ambiente circostante. Non che questo porti a una riduzione del vivente su uno stesso, soffocante piano: l’esperienza di un incontro rispettoso e consapevole parte dal presupposto di un’interazione verticale, dinamica, per differenza, in cui andrebbe capovolto il concetto di umanesimo e antropocentrismo per andare nella direzione più sana del "pensiero orientato agli oggetti" (p. 63).
Non a caso, ricorda Bourriaud, "Marx descrive il lavoratore/la lavoratrice come alienato/a perché non intrattiene più nessun rapporto vivente con il prodotto del suo lavoro" (p. 69). Ecco perché appare tanto necessario, per non dire ormai impellente, accogliere le potenzialità di altri linguaggi, di altre forme di comunicazione, di un’altra arte, che parta dall’osservazione e dall’influenza reciproca con animali e piante, in considerazione del fatto che "ogni essere dotato di un punto di vista è un sé" (p.80). Da qui parte un ulteriore assunto centrale nell’argomentazione di Inclusioni, per il quale "l’arte non si definisce come una classe di oggetti" (p. 84) rigida e predeterminata.
Al contrario, all’artista è data la possibilità di analizzare le forme e la natura per poi fare passare da potenza ad atto aristotelico il concetto di "formazione" (p. 89) di senso, di intrecci, di segnali, a partire dalla natura e fino ad arrivare all’uso poliedrico e diversificato di materia e insieme di Weltanschauung. Solo a questo punto si può ipotizzare il "ritratto dell’artista come farfalla" (p. 91) e giungere alla visione dell’arte come di un "surplus di significazione […], il vuoto centrale attorno al quale gira la ruota delle rappresentazioni nell’inconscio umano" (p. 111): crearla e osservarla porterà a introdurre confusione nell’ordine delle cose, spostando gli elementi costituivi del mondo e ragionando, come già detto, per contaminazioni del sapere, per sincretismi dell’esperienza e delle sue astrazioni.
Ne consegue "un incessante va e vieni" (p. 132), in cui il "contatto diretto con il bizzarro, con l’alterità assoluta" (p. 134) riesce finalmente a capovolgere "le nostre modalità di rappresentazione" (p. 140) e ad allargare "la nostra cartografia relazionale" (ibid.), interessando e interferendo in ogni singola sfera dell’esistenza umana e permettendo all’arte di trovare "il suo posto in quanto soluzione, in quanto agente di trasformazione dei nostri ambienti: il nostro mana" (p. 151).
In un saggio totale e inevitabile per uscire dall’impasse della nostra epoca, che prende spunto tanto dai saggi politici quanto dagli studi sull’etica, passando per Foucault e per Jacques Lacan, fino ad arrivare a Lévi-Strauss, Duchamp, Pollock e Lynch, Nicolas Bourriaud propone dunque una riflessione di ampio respiro, e al contempo straordinariamente sintetica, su un’eventuale arte post-internet, che sopravviva al presente riformulandolo, ingrandendolo e spostandolo al di là dei suoi stessi confini, nella speranza di renderli più elastici e più duraturi.
“La sfida politica fondamentale del Ventunesimo secolo consisterà precisamente nel reintrodurre l’umano in tutti i luoghi dai quali egli si è allontanato […]. Non rimettere l’umano al centro, […] ma nel cuore di quelle attività che ormai di umano hanno soltanto il nome.” (p. 157)
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