Lo scrittore austriaco Christoph Ransmayr, uno dei maggiori autori contemporanei di lingua tedesca, è stato insignito del Premio Navicella d’Oro 2023 nel corso del Festival della Letteratura di Viaggio tenutosi a Roma, nella cornice di Villa Celimontana.
Ransmayr vince questo premio grazie al suo ultimo libro pubblicato in Italia da L’orma editore, L’inchino del gigante. Cinque brevi libri di viaggi e metamorfosi, tradotto ottimamente da Marco Federici Solari.
Uscito in lingua tedesca con il titolo Die Verbeugung des Riesen (S. Fischer Verlage, 2014), il volume raccoglie alcuni racconti e scritti d’occasione accomunati dal tema del viaggio e della metamorfosi. Come è stato notato nel corso della cerimonia di premiazione, quest’ultimo libro di Ransmayr è la prova che l’improvvisazione può dare origine alla grande arte.
Il suo traduttore ed editore italiano, Marco Federici Solari, ha definito lo stile di Christoph Ransmayr come una scrittura dalla “bellezza complessa” e affascinante. Del resto, il primo viaggio in assoluto compiuto da Ransmayr, citato anche in un passo centrale del libro, è quello attraverso le lettere dell’alfabeto. L’autore osserva che la parola “mare” in tedesco (“Meer”, Ndr), come in italiano, è composta di sole quattro lettere, eppure riesce a racchiudere in sé l’infinito: le onde, la brezza, lo stridio dei gabbiani, la vastità di uno spazio senza orizzonte. “Quanto è grande la parola mare?” si domanda sorridendo Ransmayr e ricorda al pubblico una frase che gli ripeteva spesso un suo caro amico poeta, recentemente scomparso: “se hai una voce e un orecchio puoi raccontare qualsiasi cosa”.
Per comprendere la narrativa immaginifica di Christoph Ransmayr dobbiamo partire da qui, da quell’intreccio indissolubile di voce e di ascolto, da quella consonanza perfetta tra mondo esteriore e mondo interiore che compone ogni racconto. Non possiamo ridurre le opere di Ransmayr a pura “letteratura di viaggio”, perché sono molto più di un viaggio fisico, spaziale o temporale, sono un’esperienza di attraversamento del nostro inconscio e delle grandi contraddizioni del nostro tempo. Sembra che l’autore ci stia conducendo ai confini del mondo conosciuto, in realtà ci sta portando negli abissi più reconditi e inesplorati delle nostre coscienze.
L’opera sfugge a qualsiasi definizione di genere, governata da una scrittura impetuosa, a tratti surreale, a tratti politica: i libri di Ransmayr interrogano continuamente il lettore, ponendo domande implicite attraverso i vari personaggi che vi compaiono. Ogni personaggio o elemento naturale presente nel testo rappresenta un incontro destinato a modificare la nostra percezione del mondo, ampliando la nostra ridotta e limitata, proprio perché singolare, visione della realtà. Tra tutti quelli che si permettono di porre domande, scrive Christoph Ransmayr, gli scrittori dovrebbero essere i meno inclini all’errore.
Quest’ultima raccolta eterogenea di scritti, L’inchino del gigante, che nella struttura ricorda in parte un altro suo celebre libro composto di settanta racconti brevi Atlante di un uomo irrequieto (Atlas eines ängstlichen Mannes, Feltrinelli, 2013), ci dimostra che le metamorfosi di Ransmayr sono soprattutto ritratti interiori, trascinandoci in un viaggio attraverso la mente vulcanica, effervescente, di uno scrittore potente e immaginifico capace di misurarsi con la narrativa nella sua concezione più sperimentale, dilatandone tempi, spazi ed estremizzandone le forme verbali.
Proprio all’autore per eccellenza delle Metamorfosi, Publio Ovidio Nasone, era dedicato il romanzo forse più celebre di Christoph Ransmayr Il mondo estremo (titolo originale Die letzte Welt, Feltrinelli, 2003).
Da questo concetto ambiguo e insidioso di “metamorfosi” ha avuto inizio il nostro dialogo. Ringraziamo Marco Federici Solari per la traduzione simultanea.
- La sua scrittura può essere associata al movimento, è un viaggio fisico, oltre che un viaggio mentale. Sembra sempre che lei stia scrivendo mentre è in cammino. L’idea di metamorfosi, ripresa anche nel titolo di questo ultimo libro, traduce anche una sua visione del mondo e del tempo? Non pensa che “metamorfosi” sia la parola più adatta per descrivere la contemporaneità: un mondo in dissolvenza?
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L’atto stesso di scrivere storie implica il raccontare, quindi decidere di narrare partendo sempre da un inizio per arrivare poi a una fine. Questo processo comporta una ricerca, un viaggio. Dobbiamo trovare l’inizio e giungere alla fine. Quando si prova a trovare un inizio, si deve compiere un attraversamento sino ad arrivare alla fine e allora ci si accorge che tutto accade in un processo, appunto, di metamorfosi. La metamorfosi è in fondo la dinamica stessa del movimento delle cose. E, in effetti, la metamorfosi è anche il movimento centrale, l’epicentro di chi vuole raccontare.
- Mi ha colpito molto un’immagine presente nel libro, l’idea del “farmaco contro la mortalità ”. Ecco, lei pensa che la letteratura sia questo: un farmaco contro la mortalità? Può essere intesa come una forma di cura dal male più grande, la morte?
Sì, la letteratura come medicina in alcuni singoli casi può esistere. Però non bisogna dimenticare che la medicina può anche essere molto amara, che gli interventi chirurgici possono essere molto dolorosi. Credo che si debba intendere la letteratura soprattutto come capacità di allargamento della nostra consapevolezza, di ampliamento della nostra immaginazione; in questo senso la letteratura può essere una forma di cura, una cura contro i pregiudizi, contro la cecità. La letteratura può essere davvero un farmaco, credo che questa concezione debba essere cara a chi racconta storie.
Mentre l’idea che quello che scrivo possa sopravvivermi, mi interessa relativamente ecco, non mi interessa particolarmente. Io scrivo per le persone con cui condivido il pianeta in questo momento. Scrivo per i vivi, non per i morti o per chi ancora non è nato.
- Nel libro L’inchino del gigante troviamo un racconto molto particolare, intitolato Signore e signori sott’acqua, in cui attraverso il tema della metamorfosi - intesa proprio in senso kafkiano - viene messa in discussione la nostra visione del mondo antropocentrica. Questa è in fondo anche la spinta sotterranea di tutti i suoi libri, che spesso cedono la parola alla natura, agli elementi, ad esempio all’acqua di un fiume. Crede che oggi dovremmo dissociarci da questa visione antropocentrica del mondo? Non è in fondo ciò che i cambiamenti climatici ci stanno dicendo?
Una via di autodistruzione dell’umanità è già cominciata da tempo. In questo senso io sono “un astronomo della domenica”. È molto facile immaginare che siamo un corpo celeste, destinato alla fine, come tutti i pianeti. Il mondo è stato un deserto e tornerà a essere deserto. Ma il vero pericolo è che noi stessi ora siamo capaci di autodistruggerci, non tanto con le guerre, ma con la dissennatezza con cui stiamo trattando il pianeta, consumando le risorse; ecco questa non è assolutamente una novità. Nel racconto Signore e signori sott’acqua ho fatto un esercizio e un esperimento mentale, favolistico, in cui immagino come l’evoluzione del mondo possa tornare indietro sino a ridursi a questo singolo atomo d’acqua che poi faccia nascere, in futuro, un nuovo mondo. Ma l’ho fatto semplicemente con la volontà di raccontare una favola, non di fare prediche o di mettermi nel ruolo di profeta.
- Mi ha fatto sorridere la sua descrizione della Fiera del Libro di Francoforte, dice che è l’unica Fiera del Libro a cui sia andato. Ma, spoiler, a quanto pare non è l’unica a cui andrà, visto che a dicembre sarà alla fiera dell’editoria romana Più Libri Più Liberi. Cosa pensa dell’editoria contemporanea? Ha davvero un’opinione così terribile degli amanti dei libri? Nel racconto li paragona agli avventori di una fiera del bestiame...
Io vado spesso in Irlanda, amo il bestiame e anche le fiere del bestiame, quindi non era necessariamente un paragone negativo. Era fatto più per sottolineare che non c’è poi tanta differenza tra quello e questi luoghi in cui scrittori, poeti, autori, editori, si mischiano anche per fare trattative e si sentono un po’ il centro del mondo. Era più che altro per dire che quando il libro diventa merce si può trattarlo come tante altre merci. Io semplicemente non amo questi luoghi troppo affollati, dove si suda molto, dove si parla e c’è tanto chiasso. Però mi rendo conto che come scrittore non sarei nulla senza il mercato del libro e senza l’esistenza delle fiere stesse. Penso anche che una volta che ho affidato a degli editori che stimo il mio libro, che è appunto divenuto merce, non c’è bisogno che io sia sempre presente fisicamente nel promuoverlo. Ovviamente oggi è un’altra eccezione.
- Il titolo del libro “L’inchino del gigante” si rivela infine essere il frutto di un errore di traduzione, una sorta di metamorfosi linguistica. Purtroppo non conosco il tedesco, ma ci sono due parole che mi affascinano molto e in italiano sono intraducibili. “Wanderlust”, che indica il desiderio di andare altrove, al di là dei confini del proprio mondo. E “Sehnsucht”, la malattia del doloroso bramare, il desiderio struggente di qualcosa di irraggiungibile. Sono due concetti chiave del Romanticismo tedesco e lei, non a caso, è stato definito un figlio del Romanticismo. Sono queste due parole la spinta vitale della sua scrittura? Questa continua ricerca dell’altrove non è, in fondo, la malattia di ogni scrittore?
Sono parole molto belle, un po’ fuori moda e antiquate, ma molto precise. Ovviamente non si dovrebbero mai provare questi sentimenti; ma per me la Wanderlust è da intendere come “gioia di muoversi” e la Sehnsucht come “cercare uno scopo che non si è ancora raggiunto”. Interpretate in questa maniera sono entrambe due sentimenti centrali e vitali nella mia scrittura.
Si tratta tuttavia di qualcosa che è specifico per me, che fa parte della mia idea di letteratura e di scrittura, e non vale assolutamente per tutti gli scrittori in generale.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Christoph Ransmayr, vincitore del Premio Navicella d’Oro 2023
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