L’inchino del gigante. Cinque brevi libri di viaggi e metamorfosi
- Autore: Christoph Ransmayr
- Genere: Raccolte di racconti
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: L’orma editore
- Anno di pubblicazione: 2023
Il titolo, così enigmatico, di questa antologia eterogenea di Christoph Ransmayr, L’inchino del gigante (L’orma editore, 2023, trad. di Marco Federici Solari) non è un’astrazione fantastica o un rimando mitologico, ma un riferimento al naufragio del Titanic. Più precisamente a un poemetto: La fine del Titanic di Hans Magnus Enzensberger. La poesia in questione viene citata durante una cerimonia in onore di Tin Hau, la Dea del Mar cinese meridionale, presso la Joss House Bay di Hong Kong.
L’autore e un amico assistono allo strano rituale – che prevede l’incendio di un’intera città di carta nelle acque della baia – ascoltando la leggenda di Tin Hau, colei che aveva comandato alle onde di inchinarsi e così era ascesa alle vette dell’immortalità. Mentre un mondo fittizio si inabissa ai loro piedi svanendo tra fiamme divoranti, l’autore trasfigura il compagno di viaggio in Hans Magnus Enzensberger e lo immagina recitare un estratto del poemetto La fine del Titanic.
Nel finale del racconto il titolo viene tradotto dal tedesco al cinese mandarino, poi ancora in giapponese e così, di lingua in lingua, subisce un’inattesa metamorfosi: una catastrofe si trasforma in una scena solenne.
La fine del Titanic diventa L’inchino del gigante, a testimonianza che una traduzione è sempre un atto di riscrittura, un sottile tradimento, in sintesi una ri-narrazione. Bisogna partire da qui, da questa traduzione errata ma corretta, per comprendere l’essenza della variegata antologia di testi di Ransmayr, ora pubblicata da L’orma editore. Il filo conduttore dei vari racconti, appunti e discorsi in essa contenuti, alcuni dallo stampo saggistico altri dal palpabile sentore lirico, è proprio l’arte del racconto orale.
Christoph Ransmayr storia dopo storia ci insegna a leggere il libro del mondo con parole cangianti e nessuna scrittura, stregandoci con la sua capacità di affabulazione che somiglia al sortilegio ipnotico di un mago.
La magia in effetti è presente in ogni testo, in verità è insita nell’uso stesso della “parola” che è formula capace di ricreare l’esistente, rimodellarlo, trasfigurarlo, donargli nuova vita. Nel corso del viaggio a Hong Kong l’autore scopre che un farmacista di Yau Mau Tei vende della giada macinata mista a rugiada come “farmaco contro la mortalità”; troveremo, non a caso, il riferimento a questo misterioso “farmaco contro la mortalità” in un altro testo in cui Ransmayr associa il potere di immortalità proprio alla storia, ai racconti nati nelle caverne dell’uomo dell’età della pietra. Sono le parole, che squarciano il silenzio muto dei secoli e trasformano l’uomo in narratore, trasfigurano la realtà in immaginazione, capovolgono il mondo nel palcoscenico di un teatro. Perché nel regno dell’immaginazione si vive per sempre, le coordinate spazio-temporali si spezzano, nulla può davvero ferirci o impedirci di sopravvivere.
Ha definito «farmaco contro la rovina», «erba per curare la mortalità» i racconti dell’uomo delle cicatrici. (…) Infatti, chi trova ospitalità in una storia continua a cacciare, amare, ridere o combattere (…) Quando l’uomo delle cicatrici ti conduce nel regno dell’immaginazione puoi vagabondare per le generazioni, nel passato e nel futuro, e, protetto come in un nido, perduri quanto gli insetti imprigionati nella resina, le pietre e le lumache divenute esse stesse pietre, e sopravvivi, seppure non in eterno, sicuramente più a lungo di qualunque creatura che respira. Lì nessuna clava, lancia o zanna può ferirti.
A questo elogio dell’arte del narrare lo scrittore austriaco – il cui ultimo romanzo Il maestro della cascata è stato di recente edito da Feltrinelli – intreccia la propria autobiografia. Lo sdoppiamento tra l’uomo Ransmayr, vagabondo, inquieto, nomade per vocazione, e lo scrittore Ransmayr, osservatore acuto, fine conoscitore dell’animo umano, è onnipresente.
Con lo stesso passo leggero il narratore è capace di trascinarci con sé dagli altopiani del Tibet all’Himalaya sino alle scogliere irlandesi, dall’elegante sala di un concerto ai corridoi asfissianti della fiera dell’editoria di Francoforte. A ogni passo Ransmayr accompagna la sua riflessione, come se le idee fossero possibili solo in movimento e il viaggio fosse il correlativo diretto del narrare.
Le sue riflessioni non sono mai astratte o fini a sé stesse, ma si allacciano al presente: memorabili le parole d’accusa rivolte all’Europa coloniale che trasformò “genocidio e schiavitù in una pratica commerciale” ne La bambina con il vestito giallo, discorso pronunciato in occasione del ritiro del premio Würth per la letteratura europea nel 2018. L’autore contrappone la visione dell’antica Europa, dilaniata dalle guerre, e la visione dell’Europa contemporanea: si domanda se siano poi così diverse, se non siano in fondo entrambe divorate dalla stessa avidità, spezzate dallo stesso insanabile contrasto tra ricchezza e povertà, dirette verso l’identica rovina. Di quell’Europa venuta al mondo al suo primo vagito come crocevia di culture diverse Ransmayr conserva nostalgicamente intatta la “magica, seducente utopia”.
L’arma con cui l’autore sviscera le sue argomentazioni è spesso quella del sarcasmo e dell’ironia. Esilarante, a tal proposito, la descrizione che riserva alla Fiera del libro di Francoforte (l’unica fiera del libro a cui sia andato, precisa, come per tenersene ancora a debita distanza). Ecco che il magico regno dell’editoria si trasfigura in un campo di rugby o in uno scenario di guerra in cui lo scrittore, per natura essere nomade e solitario, si sente intrappolato come in una prigione.
Chi dice che gli amanti dei libri siano poi così diversi da coloro che si recano a un’asta del bestiame? osserva, non troppo scherzosamente, Ransmayr. L’incontro con un’editrice e il racconto di un viaggio saranno il pretesto per una fuga onirica capace di trasformare gli stand della fiera nelle terre ignote di mondi lontani.
L’inchino del gigante è un viaggio nella mente vulcanica, effervescente, in continua ebollizione di un grande narratore del nostro tempo. Christoph Ransmayr ha il dono di trasformare la parola in atto, il racconto in azione. Persino il suo testo apparentemente più astratto Signore e signori sott’acqua, geniale ripresa della metamorfosi kafkiana, cela in sé una profonda rilettura della teoria dell’evoluzione che mette in discussione la nostra visione del mondo antropocentrica. Il racconto, ispirato a una serie di fotografie del mondo sottomarino scattate da Manfred Wakolbiger, è narrato dal punto di vista del guardiano di un museo trasformato in un calamaro da scogliera. Dal suo universo acquoreo il nostro protagonista ci fornisce una acuta anamnesi della condizione umana che, persino nelle sue note più sarcastiche, conserva intatto un nocciolo di verità.
Indigna e commuove il racconto finale, La bara di un uomo libero, dedicato alla memoria del padre che l’autore identifica con Michael Kohlhaas, il personaggio di un romanzo di von Kleist, per la sua identica “fede inscalfibile in una giustizia terrena”. Quest’ultimo testo cela anche una sorpresa inedita per i lettori di Ransmayr che finalmente scoprono le origini del “Maestro della cascata”. Karl Richard Ransmayr era infatti il primogenito illegittimo della figlia del guardiano di una chiusa e trascorse la sua infanzia in una casa dal tetto di paglia immersa “in una nuvola d’acqua”.
Rivive così l’incredibile parabola esistenziale, dal sapore romanzesco ma anche drammaticamente umano, di quest’uomo a suo modo eroico che seppe opporsi con l’intelletto a ogni forma di schiavitù del suo tempo. Scolaro dotato, giovane fermo nelle proprie convinzioni, soldato renitente e poi maestro di scuola elementare che si prodiga per il benessere cittadino ma viene tradito da una comunità bigotta, pressapochista e ottusa. Lo abbattono la calunnia e la diffamazione, come accade a chi si eleva al di sopra della massa risultando scomodo nella sua spiccata individualità.
La storia di Karl Richard Ransmayr non ha un vero lieto fine; è una parabola dolceamara come lo è, in fondo, ogni esistenza.
In poche pagine illuminate Ransmayr figlio trasfigura questa “piccola vita” e la rende grande, le conferisce la dignità di cui era stata privata dall’invidia e dall’ingordigia di potere degli uomini. Noi che leggiamo vediamo Karl Richard Ransmayr nascere e morire da uomo libero; ci è sufficiente, però, ritornare al primo capoverso per vederlo nascere di nuovo, morire di nuovo, così capiamo che il suo destino è divenuto eterno e si è già proiettato a fuoco nella nostra memoria. È il potere dell’arte di narrare. Un vero farmaco contro la mortalità.
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