Dopo il successo del suo romanzo d’esordio, La casa delle madri, una dolente e lirica storia familiare finalista al Premio Strega 2021, Daniele Petruccioli torna alla narrativa componendo un inedito Vangelo al femminile: Si vede che non era destino (TerraRossa, 2023).
Un libro dedicato a Maria, la madre di Gesù, grande assente della Trinità. In queste pagine è la Madonna a narrare la sua storia in prima persona, o meglio, la sua versione della Storia. Lo fa con la sua palpitante e frizzante voce bambina che via via si fa più matura, profonda, sino ad assumere la tonalità roca e riflessiva della vecchiaia. Maria cresce insieme a suo figlio, obbedendo a un destino che non ha scelto e tuttavia non subisce passivamente; e ben presto scopriamo che in fondo la vera rivoluzionaria è lei che ha portato in grembo e generato il Redentore dell’umanità.
Da subito le pagine di Si vede che non era destino sfuggono all’interpretazione religiosa e ci consegnano un vangelo laico, profondamente umano, narrato con la voce di una donna, di una madre, che diventa metafora universale di tutte le donne, di tutte le madri, ma soprattutto delle donne “diverse” chiamate a farsi portatrici di un messaggio inatteso.
Ne abbiamo parlato con l’autore, lo scrittore e traduttore Daniele Petruccioli, in questa intervista.
- Ciò che maggiormente colpisce di questo libro, soprattutto per chi ha letto il tuo romanzo precedente La casa delle madri, è la totale differenza di stile e di scrittura. Sono due storie molto diverse, eppure entrambe travolgono il lettore in un vortice e dimostrano una grande capacità affabulatoria. Per questo sorge spontanea una domanda sul tuo rapporto con la scrittura: com’è nato e come si è sviluppato nel tempo? Quando ti sei scoperto scrittore?
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Non so quando mi sono scoperto “scrittore”, so solo che ho sempre scritto. Ma inizialmente non volevo pubblicare, scrivevo per me. A diciassette anni avevo scritto un manoscritto lunghissimo ma terribile, che poi ho bruciato. Ho continuato a scrivere per anni: poesie, racconti, tantissimi testi di canzoni. Tutti si aspettavano che prima o poi pubblicassi, ma io per un innato “bastiancontrarismo” non potevo che deluderli. Da giovane pensavo in maniera più sistematica, scelsi di studiare recitazione in accademia e di intraprendere la carriera di attore. Per lungo tempo è stata quella la mia vita, lavoravo come attore scritturato per il teatro e la televisione. Così ho incontrato mia moglie, Flora Farina, e lei è davvero la miglior drammaturga e scrittrice che io conosca.
Solo nel 2007 ho scelto di pubblicare una raccolta di poesie Sonderkommando, edita da Zona. Quando ho iniziato a lavorare come traduttore scrivevo sempre, perché spesso ci si esercita scrivendo nello stile dell’autore su cui si sta lavorando. La casa delle madri è un libro iniziato così, per diletto, per esercizio. L’ho scritto per me, perché volevo provare a scrivere nella lingua della mia infanzia, quella lingua che sento mia. Poi l’ho fatto leggere soltanto a quattro amici. A tirarlo fuori dal cassetto è stato un amico traduttore, Giuseppe Girimonti Greco, all’epoca raffinatissimo scout di libri francesi. Gliel’avevo inviato chiedendogli “Secondo te è leggibile?” E lui inaspettatamente mi ha risposto: “Non solo è leggibile, ma devi pubblicarlo”.
Recensione del libro
La casa delle madri
di Daniele Petruccioli
- Arrivando invece all’ultimo romanzo, Si vede che non era destino, sorprende la tua totale capacità di identificazione in una figura femminile. Come ti è venuta l’idea di scrivere questa storia, di donare una voce a Maria, alla Madonna?
L’idea è nata dal primo nucleo della Lettera aperta sull’interpretazione di Martin Lutero, scritta nel 1530. All’epoca Lutero stava traducendo la Bibbia in tedesco e lo accusarono di aver tradotto male una parola, cosa che purtroppo capita spesso ai traduttori. Lutero si infuriò e rispose difendendo a spada tratta la sua opera, facendo notare che la preghiera alla Madonna, tratta dalla Vulgata di San Girolamo, “Ave Maria”, culturalmente si traduce come: “Ciao Maria, quanto sei bella!” che è il saluto che si rivolge a una donna incinta. Da quello spunto sono partito per raccontare la mia storia, quella frase è stata l’aggancio.
Il libro ho iniziato a scriverlo nel 2017, anche se la Lettera di Lutero la lessi molti anni prima. Ho capito subito che lei, Maria, doveva parlare in prima persona.
La prima cosa da fare secondo me, quando si scrive, è trovare il personaggio, come a teatro. Ho cercato di mettermi in sintonia con la sua voce, non scrivevo finché non sentivo risuonare in me quella voce. Quanto all’identificazione con una figura femminile, cito una frase di un’autrice che amo molto, Dulce Maria Cardoso. Quando le chiesero come avesse fatto a dare voce a un ragazzo di 15 anni, uno dei suoi personaggi più famosi, lei rispose: “Sono una scrittrice”. Ecco, è così, semplicemente identificarci negli altri e creare è il nostro mestiere.
- Uno degli espedienti narrativi più convincenti del romanzo è la presenza dell’argento. Spesso Maria scivola in questa sorta di estasi mistica che viene definita in maniera singolare “l’argento”. Deve essere letta come una metafora della fede?
Non della fede, ma del Misticismo. In un certo senso, in quei momenti, lei muore di trascendenza, ma non ha gli strumenti per comprenderlo. Maria in verità non teme queste sue visioni, ma la diversità che le attribuiscono e quindi cerca di limitarsi, di governarsi. Era molto importante stabilire questo legame tra lei e il trascendente per dimostrare che, in fondo, la prima vera rivoluzionaria era lei; la rivoluzione portata da Ieshua inizia da Maria, dal suo essere una donna “scomoda”, che gli altri giudicano malata nel mio romanzo. In esergo ho inserito non a caso una frase di Frances Farmer, un’attrice che fu rinchiusa in manicomio e sottoposta a lobotomia. “Se tutti ti trattano da malata, tendi a comportati come tale”, dice Farmer. Per me era un messaggio importante, che riflette la visione di Maria: anche lei è incompresa nella sua diversità, gli altri la credono malata e non comprendono l’entità del suo dono. La frase di Farmer è una chiave di lettura dell’intero romanzo.
- A un certo punto Maria dice: “Passo la vita cercando di spiegare mio figlio a me stessa.” Che è poi, credo, lo stato d’animo di tutti i genitori. Possiamo definire Gesù come un adolescente ribelle?
Ho voluto rileggere la storia in maniera moderna. Io stesso, che sono padre, ho adottato come metro di paragone il rapporto con i miei figli. Come doveva sentirsi Maria nel vedere questo suo figlio che critica la società pensando di ricostruirla e tuttavia è così adorato, venerato, pieno di seguaci adoranti? Un figlio così, pieno di “followers” diremmo oggi, ti fa un po’ paura. Ho immaginato che lei volesse riportarlo all’ordine, redarguirlo, che fosse preoccupata dal fenomeno che si stava creando. C’è un momento, però, in cui Maria capisce. Ho citato volutamente il Discorso della montagna di San Matteo perché vi è contenuto il senso dell’insegnamento di Gesù. Quando lo ascolta Maria finalmente comprende che ciò che sta facendo suo figlio è giusto ed è una vera rivoluzione ideologica.
- In queste pagine viene spesso dato voce allo smarrimento di Maria, alla sua incapacità di comprendere ciò che sta accadendo. Dobbiamo interpretarla come una figura passiva che ubbidisce alla volontà di un destino superiore?
In parte lo è, perché è una persona insicura, abituata a sentirsi malata, sbagliata, in difetto. Tuttavia è proprio questo che, secondo me, la rende aperta all’ascolto e quindi molto potente. Pur nella sua apparente passività, Maria è una persona che osserva, che guarda, e la sua visione è importante perché è rivoluzionaria, capace di riformulare l’assetto stesso del mondo.
- Nel libro viene descritta una scena di crudo realismo: Maria che partorisce tra atroci sofferenze. Un’immagine distante dalla classica natività del Presepe. Volevi rendere appieno l’idea di un Cristo fatto carne?
Io credo che Gesù si sia fatto carne per essere partorito da una donna, per sentire quell’atroce distacco. La descrizione è cruda, ma vera. Il parto è un avvenimento molto violento, lo so perché ho assistito a quello dei miei figli. C’è odore di bestia, di sangue, è una cosa primordiale; ma tutti siamo nati così. Nel libro volevo restituire questa atmosfera. Del resto il mio non è un libro religioso, è una sorta di Vangelo laico riscritto da un agnostico.
- Si tratta di un “Vangelo al femminile”, perché le voci narranti sono tutte donne: Maria, Elena, Maria Maddalena. Colpisce in particolare la figura di Elena, la balia greca di Ieshua. Da dove hai tratto ispirazione per questo personaggio?
Secondo le Scritture Maria partorisce da sola, perché in quel momento Giuseppe è lontano, è andato a cercare aiuto. Ma io non volevo lasciarla sola in un momento del genere, e allora ho pensato di metterle una figura accanto. Il personaggio di Elena è nato così. Poi pian piano questa figura ha preso corpo sino a divenire una voce importante capace di fare un monologo completo che, di fatto, è un racconto dentro il romanzo. A un certo punto ho pensato di lasciare solo lei, Elena, come figura contraltare di Maria, eliminando la Maddalena. È stato il mio editore, Giovanni Turi, a chiedermi di reintrodurla, sostenendo che il suo personaggio fosse importante.
- Maria Maddalena appare come un fantasma, la sua è una narrazione sospesa, scritta in corsivo e molto lirica. Come hai interpretato il rapporto tra lei e Maria?
Come un rapporto di ammirazione, ma anche di sorellanza. A un certo punto Maddalena, che confessa di essere innamorata di Gesù, dice a Maria: “Era te che cercavo prima di lui”. La Maddalena riconosce nella Madonna il seme, in un certo senso riconosce in lei sé stessa.
Sono anche due figure molto diverse: Maddalena è una donna libera, indipendente, che ha il coraggio di vivere in mezzo agli uomini. Per Maria questo è inconcepibile, perché per lei è lacerante l’idea di essere diversa, mentre per Gesù e la Maddalena “essere diversi” è un atto politico.
- Nel Vangelo secondo Gesù Cristo di José Saramago appare un angelo funesto che non annuncia la vita, ma la morte. Anche nel tuo libro Maria nominando Dio si interroga sulla sua reale identità: “Dio o chi per lui, angelo o demone?” Tu come hai risposto a questa domanda?
Il rapporto conflittuale con Dio è una cosa che mi interessa molto. A differenza di Saramago, però, nel mio romanzo Satana non c’è mai o, quando appare, diventa un doppio di Ieshua stesso, la sua controparte. Forse mi interessa soprattutto il discorso sulla non violenza della religione cristiana.
- Una scena in particolare mi ha colpito molto all’interno del romanzo: la preghiera di Maria. Dopo la morte di Giuseppe lei rivolge a Dio una preghiera molto umana, molto laica, rovesciando il finale del “Padre Nostro” si chiede, in fondo, ciò che ci chiediamo tutti: “Perché non hai pietà di noi?” In fondo il senso di un “vangelo laico” è racchiuso in questa frase, non trovi?
Lo scrittore Giovanni Testori scrisse che la bestemmia urlata è un’invocazione e quindi una forma di preghiera. Nella preghiera di Maria volevo dare voce a questa rivalsa nei confronti della morte, che è un sentimento molto umano.
Credo che per essere veramente umani ci si debba porre il problema del prossimo e della sofferenza. E poi ricordiamo che con Dio se la prese persino Giobbe, il migliore e più fedele dei suoi servitori...
Recensione del libro
Si vede che non era destino
di Daniele Petruccioli
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Daniele Petruccioli, in libreria con “Si vede che non era destino”
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