I veri poeti nel nostro frammentato e sempre più fotografico mondo digitale sono ormai creature in via d’estinzione, ma per fortuna incontrare Giorgio Ghiotti smentisce questa drammatica prospettiva.
Giovane scrittore e poeta con numerose pubblicazioni all’attivo, dall’esordio con nottetempo con la raccolta di racconti Dio giocava a pallone (2013) sino alla più recente Le cattività domestiche (FVE editori, 2022), Ghiotti sa che la parola ha un peso non solo concettuale, anche artistico, spirituale, e oserei dire “metafisico”. Nel suo ultimo libro di poesie Ipotesi del vero (LiberAria Editrice, 2023) le parole si svuotano della loro pura carica semantica per diventare “essenza”, acquisiscono un valore vitale riuscendo a narrare persino l’astratto sentimento del tempo, lo sfiorire delle epoche e il presagio ancora vago di un futuro possibile “se è ignoto il passato che ci spetta/sogneremo anche l’ignoto”.
Giorgio Ghiotti è un poeta non solo sulla pagina scritta, è poeta anche nel dialogo nel quale intreccia un’abile retorica all’incredibile capacità di discettare in modo quasi enciclopedico di molti altri autori: dai più contemporanei, come Valerio Magrelli, ai cari poeti estinti che popolano anche i versi di questo libro.
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Sono i grandi autori del nostro Novecento la linfa della poesia di Ghiotti e lui rende loro omaggio componendo un inedito “canzoniere” che è estremamente contemporaneo, eppure antico. Perché non basta andare a capo per essere poeti e, facendo il controcanto a molta “poesia pop contemporanea” fatta di parole alla rinfusa, la lirica di questo giovane autore ci parla con un linguaggio sapiente, a tratti aulico, melodioso, ricco di sfumature capaci di narrare la vita nelle sue accelerazioni, nelle sue stasi, ma soprattutto nelle sue apparenti contraddizioni.
Sono numerose le tematiche sviluppate in questo libro, che in realtà ne contiene ben due: Ipotesi del vero e la seconda parte L’andare e l’addio dedicata a un bambino, il piccolo Pietro. Giorgio Ghiotti si confronta con due grandi temi che da sempre contraddistinguono la sua scrittura: la morte e l’infanzia, necessariamente in quest’ordine, perché la poesia va proprio nella direzione ciclica di un ricongiungimento. Si rende onore a coloro che ci hanno preceduto attraverso il lascito donato a chi ci seguirà, sostituendoci nel cammino della vita. Quest’eredità può essere rappresentata da un bambino che ancora deve apprendere il miracolo vivo delle parole e osserva il mondo con occhi incantati stringendo la coda di una gatta.
Cos’è dunque l’ Ipotesi del vero, cosa si cela dietro questo titolo enigmatico come un quadro di Magritte? Ne abbiamo parlato con Giorgio Ghiotti in questa intervista.
- Leggendo Ipotesi del vero si ha la sensazione di non trovarsi di fronte a una comune raccolta di poesie, ma al Canzoniere di una vita. È un volume molto strutturato, diviso in più capitoli e sezioni e nel finale sembra introdurre una sorta di nuovo libro L’andare e l’addio. In questo libro sei poeta, ma riesci a mantenere la narrazione affabulatoria di uno scrittore di prosa. Come è nata l’idea di scrivere questa raccolta?
In realtà all’inizio avevo in mano soltanto il primo libro, Ipotesi del vero, l’idea di aggiungere la seconda parte, L’andare e l’addio, è nata in seguito, grazie a un incontro fortunato. L’ultima sezione è dedicata al piccolo Pietro, il mio nipotino acquisito, che ho conosciuto quando aveva quasi un anno. È stato lui a ispirarmi versi pieni di luce; lui e la sua inseparabile gatta Viola. Dopo averlo incontrato per la prima volta c’erano già questi versi che mi frullavano in testa. È incredibile la sensazione di infanzia riattivata che può darti un bambino. Mi ha fatto tornare alla mia infanzia e, al contempo, mi ha portato a riflettere sul tema del lascito e dell’eredità. Per questo motivo ho scelto di mettere in esergo a questa sezione una frase di Biancamaria Frabotta, è lei la dedicataria, perché pensavo che solo una grande maestra avrebbe potuto parlare a Pietro dei “grandi amati”.
- Hai dedicato un’intera sezione del libro, la quarta, Una tenera erba per i ritorni alla memoria di Biancamaria Frabotta. La definisci con termini quasi mitologici una “sirena arborea”. Cosa ha rappresentato per te Biancamaria?
Ho questo ricordo di Biancamaria che prepara il tè sotto il patio nella sua casa in campagna e mi chiama per leggere I cavalli di Achille di Costantino Kavafis, perché lei amava Kavafis. Ho immortalato questo e altri momenti nelle poesie. Avevamo un rapporto molto stretto e lei mi ha eletto subito a suo “amico”, nonostante non sapesse nulla di me. Io, a differenza di altri, non ero stato suo allievo, l’ho conosciuta grazie a un’intervista. Avevamo un rapporto unico, privo di gerarchie. Di lei ho un ricordo tenero e ironico: è stata lei, sempre nella sua casa in campagna, a spiegarmi che le cicale, al contrario di quanto pensavo io da ragazzo di città, non erano degli uccelli. Ricordo lei che teneva in mano le cicale e mi mostrava ridendo come erano fatte le loro ali. Credo che a volte ci si mette una vita intera a trovare persone con cui dialogare ed è terribile realizzare di averle perdute. Perché certe persone non sono sostituibili. Prima se n’è andata Biancamaria, poi Patrizia Cavalli, la poesia italiana oggi sta diventando un “mondo di scomparsi”.
- Alcune poesie sono dedicate a Patrizia Cavalli, che in questi versi sembra letteralmente saltare fuori dalla pagina con il suo “gilet blu mare”.
Quella poesia in particolare in cui nomino il “gilet blu mare” ricorda il momento in cui ci siamo conosciuti, la prima volta che l’ho vista. Era una sera di dicembre del 2012, alla festa di Natale di una casa editrice. Lei era arrivata con questo gilet blu, ed è stata come un vento che si alza e all’improvviso invade tutto. Ricordo un aneddoto curioso, la vedevo fumare una sigaretta dopo l’altra e a un certo punto le chiesi: “Ma Patrizia quanto fumi?” E lei mi rispose: “Tre sigarette a sillaba”.
Ma è solo una delle sue risposte fulminanti. C’è una sezione del libro dedicata all’ipocondria - perché devi sapere che io sono terribilmente ipocondriaco - e anche questo mi riporta a Patrizia. Un giorno chiacchierando avevamo scoperto di avere questo problema in comune e lei mi disse: “L’ipocondria è data da un eccesso di immaginazione”. Insomma alla fine non era più un difetto, ma quasi un vanto, qualcosa di cui essere orgogliosi.
- Il titolo del libro è enigmatico: “Ipotesi del vero”. Cosa significa?
Vuole sottintendere quello scarto ineludibile tra quello che noi crediamo delle persone che amiamo e quello che loro realmente sono. C’è sempre uno stacco tra l’immagine che tu ti sei costruito di loro e la loro vera essenza: la nostra rappresentazione è un’ipotesi del vero. Me ne sono accorto grazie alla figura di mia nonna, una maestra elementare, di cui narro anche nei racconti Le cattività domestiche.
Proprio a lei ho dedicato la sezione del libro intitolata L’altra ragazza, mia nonna in cui metto in luce questa distanza tra la persona che io ho conosciuto e la giovane donna che è stata.
- Uno dei temi ricorrenti di questo libro è l’infanzia. In una poesia scrivi “I cavalli a dondolo mi perseguitano da sempre/ chissà dove avrebbero condotto”. Mi ha colpito questa immagine dinamica di qualcosa che noi siamo abituati a pensare
come un oggetto statico: dove credi che ti avrebbero condotto i cavalli a dondolo?
In verità i cavalli a dondolo mi perseguitano da sempre. Mia mamma li utilizzò persino come bomboniera, in versione ridotta, per il mio battesimo. Da bambino erano la mia passione, il mio gioco preferito in assoluto. Ora invece mi incuriosiscono soprattutto per la loro particolarità: il loro doppio movimento. Il dondolo non sta mai fermo, va avanti e poi va indietro, sembra procedere ma poi recupera il passato. Credo che questo doppio movimento del cavallo a dondolo, in bilico tra passato e futuro, sia la perfetta chiave di lettura del mio libro.
- Il rapporto con il passato è una costante che si ripete in molte poesie. Rievochi te stesso in un’altra età e affermi di non riconoscerti. Mi ha ricordato la poesia di Montale Cigola la carrucola del pozzo, in cui il poeta dice che il “passato appartiene ad un altro”. Lo credi anche tu?
In una poesia parlo di me stesso come di “qualcuno che spaventosamente mi somiglia”. Io credo che tu sei sempre qualcuno che spaventosamente ti somiglia, non sai mai davvero chi sei, perché non siano esseri fissi, immutabili. L’evoluzione, che fa parte della vita, però non si deve confondere con la fluidità.
Al contrario di quanto oggi dicono in molti, io penso che non si possa essere “fluidi” per sempre, a un certo punto credo che una persona abbia bisogno di riconoscersi in una sorta di stabilità, altrimenti si rischia di diventare schizofrenici. Oggi la parola “fluidità” è persino abusata, ne stanno parlando persone che non avrebbero nemmeno diritto di usarla e invece definiscono di sé stessi come delle vittime sacrificali. Io credo che la fluidità invece sia un concetto complesso e che dovremmo concedere alle vere vittime il privilegio di essere vittime e sottrarci a questo vittimismo imperante.
- In una sezione del libro ti sei cimentato persino nella riscrittura della Divina Commedia di Dante. Come ti è venuto in mente di riscrivere il IV Canto del Paradiso?
In realtà non mi sarei mai cimentato da solo in un’operazione che già definirei fallimentare (ride, Ndr). In questo progetto mi ha coinvolto Edoardo Rialti, traduttore e giornalista de Il Foglio, che ha proposto un Commento collettivo alla Divina Commedia. Allora mi sono lanciato in questa operazione di riscrittura, il IV Canto del Paradiso è un canto teologico che propone al lettore tre grandi dubbi, in ultimo si domanda se le stelle possano influenzare l’agire del cosmo. È stato interessante renderlo in chiave contemporanea. A differenza di altri, io credo che alcune tra le poesie più belle possano nascere anche su commissione. Concordo con ciò che disse il poeta Valentino Zeichen, che avrebbe voluto vivere alla corte di un mecenate. Penso che i mecenati diano valore alla poesia, supportandola anche dal punto di vista economico, una cosa che oggi manca.
- Una domanda che invece mi è stata suscitata dal titolo di un’altra curiosa sezione del libro, quella dedicata al tuo cagnolino Oliver. Cos’è un “cane natufiano”?
Il titolo fa riferimento alla più antica attestazione affettiva tra uomo e animale: una tomba natufiana di 12mila anni fa, in cui sono stati ritrovati i corpi di un cane e di un bambino di sette anni abbracciati. È proprio con questa immagine che chiudo la sezione. Io penso che gli animali siano sacri. Amo follemente anche il mio cane e non posso sopportare l’idea di sopravvivergli, queste poesie sono dedicate a lui in maniera anche ironica e giocosa, infatti lo definisco un cane che ha “dosi di gattità”.
- In questo libro parli anche molto di te stesso a carte scoperte. In una poesia dici “Mi stupisco quando scopro di avere/amici più giovani di me/ di me più capaci” e poi aggiungi “Non sono più la timida mascotte”. Non hai nemmeno trent’anni e ti senti già tanto vecchio? O è la sindrome dell’impostore a parlare?
Ho amici più giovani e più bravi di me, questo lo penso davvero, non è falsa modestia. Anzi, io come scrittore mi metto sempre in discussione: ogni libro che pubblico è come se fosse il primo libro. Tremo a ogni presentazione, perché non so come reagirà il pubblico. Per il resto quando leggo il libro di un nuovo scrittore mi aspetto sempre che mi faccia sentire mediocre, devo cadere in questo stato di ammirazione totale. Quindi per me è davvero un senso di stupore, non c’è competizione assolutamente. Forse c’entra anche la sindrome dell’impostore, ma in fondo ce l’abbiamo tutti, no? Davvero provo ammirazione per tanti giovani poeti, penso ad esempio Ivonne Mussoni o a Gabriele Galloni, che non c’è più, di cui Crocetti editore ha appena pubblicato l’ultima raccolta Sulla riva dei corpi e delle anime.
- La sua morte tre anni fa ha sconvolto il mondo dell’editoria. Che ricordo hai di Gabriele Galloni?
Penso che sia stato il poeta migliore della mia generazione. Questo non lo dico perché non c’è più, lo dico perché è la verità. C’è tanta gente che in vita non l’ha mai considerato e ora ne sta facendo un santino. Gabriele non avrebbe mai voluto diventare un santino. Penso che sia un destino terribile diventare un modello. Lui era allegro, sfuggente, imprendibile, inquieto. Penso che la sua poesia sarà tra le poche che leggeremo ancora tra cinquant’anni, a differenza di tanti “poetuncoli” che escono dai blog o da Tik Tok.
- Pensi che oggi la poesia stia vivendo una fase di crisi?
La poesia vera è sempre in crisi, ma questo non è un male. A guardar bene nella vita c’è sempre un motivo per cui essere in crisi. La poesia nasce proprio da questo, dalla crisi, non da uno stato di benessere o di felicità. Poi per scrivere bisogna avere fiducia nella parola che deve correre sulla pagina e quindi avere coraggio.
Patrizia Cavalli in una sua famosa poesia scrisse “Io lo so qual è la parola giusta/ io lo so e tu non lo sai”, in risposta a chi obiettava che in fondo non ci voleva nulla a scrivere poesie. Patrizia disse “Non è mio questo coraggio/però è mio quando ce l’ho”, ecco è questo coraggio che fa il Poeta.
- Tu quando hai sentito di avere questo coraggio? Insomma, come nasce una poesia?
Secondo me devi scrivere quando “senti” la poesia. Non è una cosa che puoi prevedere o decidere a tavolino. Non è che ti siedi alla scrivania, sfogli il dizionario, cerchi le parole e poi ecco scrivi la poesia. Oddio, probabilmente oggi c’è anche chi scrive così, ma quella non è vera poesia. Io penso che la poesia, quando c’è, è una sorta di miracolo. Io stesso penso ogni volta che scrivo una poesia che potrebbe essere l’ultima, che potrebbe non capitarmi mai più. Nella vita di tutti i giorni non mi sento poeta, faccio tante cose, cose umane, come tutti. Giorgio Caproni diceva: “Uno non è poeta sempre, ma quando scrive una poesia”. Ed è davvero così, il segreto è capire “quando la poesia c’è” e poi sperare che questo miracolo si ripeta.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Giorgio Ghiotti, in libreria con “Ipotesi del vero”
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