Giorgio Ghiotti non è un esordiente, ma potrebbe benissimo esserlo data la sua giovane età. Classe 1994, vero e proprio scrittore prodige, ha già all’attivo oltre una decina di pubblicazioni: dopo i primi racconti pubblicati a soli diciotto anni con nottetempo Dio giocava a pallone (2013) ha debuttato in poesia con la raccolta L’estinzione dell’uomo bambino (Giulio Perrone Editore, 2014). È stato presentato già due volte al Premio Strega: nel 2020 con la raccolta Gli occhi vuoti dei santi (Hacca, 2019) proposta da Biancamaria Frabotta, la seconda volta nel 2022 con il romanzo Atti di un mancato addio (Hacca, 2021) candidato da Sandra Petrignani.
La sua ultima raccolta di racconti Le cattività domestiche (Fve editori, novembre 2022) si inserisce dunque nel solco di una ricca e polifonica produzione letteraria degna di uno scrittore già affermato. Questo nuovo libro di Giorgio Ghiotti si presenta sin dal titolo come un ossimoro, una contraddizione in termini Le cattività domestiche: come ci si può trovare intrappolati in un luogo domestico che ci è noto, intimo, familiare?
L’espressione indica proprio la “prigionia del familiare”, ma anche del quotidiano, le cattività che costruiamo nostro malgrado seguendo costrutti sociali, politici, culturali, ma anche le cattività in cui ci ritroviamo imprigionati senza volerlo e che, inconsciamente, ci abitano.
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Gli undici racconti che compongono Le cattività domestiche parlano di individui, ma soprattutto di famiglie e dello strutturarsi di rapporti profondi che creano ferite silenti eppure indelebili nell’inconscio in grado di riemergere nei momenti più inaspettati. Sono racconti tutti diversi per stile e struttura: vi si può cogliere l’influsso di diverse correnti letterarie, dalla letteratura ispanoamericana a quella italiana novecentesca, e il deflagrare inatteso di vertici di poesia.
Giorgio Ghiotti non rinnega i suoi modelli letterari, anzi li esalta, perché “le autrici e gli autori che hai amato finiscono per condizionarti tuo malgrado” e scrivere, come leggere, significa non essere soli ma in dialogo con l’altro. “Non esiste paura in terra di letteratura” afferma Ghiotti, ribadendo la somma verità secondo cui l’esercizio letterario è un atto di coraggio e, soprattutto, di empatia e di ascolto.
Cosa rappresentano, dunque, Le cattività domestiche? Ne abbiamo parlato con l’autore, Giorgio Ghiotti, in questa intervista.
- È vero che in origine Le cattività domestiche (Fve editori, 2022) doveva essere il titolo della tua precedente raccolta di racconti Gli occhi vuoti dei santi (Hacca, 2019)? Come ti è venuta l’idea per questo titolo così particolare e cosa significa per te l’espressione “Le cattività domestiche”?
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Sì, è così. Il titolo mi frullava in testa già da un po’, alla fine dovevo metterlo a tutti i costi da qualche parte (ride, Ndr). Comunque penso sia più adeguato per questa raccolta che per la precedente. Quando, anni fa, lo proposi alla mia editrice mi rispose “Bello, ma puoi trovare di meglio”. Aveva ragione, alla fine non era il titolo adatto per quella che poi infatti è diventata Gli occhi vuoti dei santi. Anche quella raccolta parlava di rapporti familiari, ma si concentrava soprattutto sul male, sulla cattiveria intesa nel suo stato più puro. Invece credo che la “cattività” sia un sentire molto più profondo, individuale, quasi inconscio. È quasi un sentimento che costruiamo nostro malgrado nell’arco della vita. Rappresenta tutta l’ambiguità del reale. Possiamo sentirci in “cattività” in vari ambiti: in famiglia, nella vita professionale e privata, ma anche l’età stessa può rappresentare una forma di cattività, una gabbia o una prigionia che ti sottrae alle potenzialità infinite della giovinezza.
- Il racconto che apre la raccolta I gerani mi ha ricordato la canzone di Fabrizio De André ispirata all’antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters: “Dormono sulla collina”. Ti sei ispirato a quel testo durante la scrittura?
In realtà no, anche se in molti mi stanno facendo notare questa somiglianza e devo dire che hanno ragione. Forse ci sono influenze che agiscono su di noi nostro malgrado. Per scrivere l’incipit di quel racconto mi ero ispirato al romanzo di una scrittrice premio Pulitzer: Olive Kitteridge di Elizabeth Strout. Volevo dare l’impronta di una narrazione corale, far avvertire da subito la visione della comunità di quel piccolo paesino di nome Occam. Anche se infine la narrazione si concentra soprattutto su tre personaggi, William, suo figlio e Sally Rotko. Se proprio vogliamo parlare di influenze letterarie, il titolo I gerani è un omaggio alla scrittrice americana Flannery O’ Connor che intitolò un suo celebre racconto proprio Il geranio.
- Nel secondo racconto Santi in laguna si compie una sorta di metamorfosi: i santi diventano demoni. Vi si può leggere sottotraccia una sorta di riflessione esistenziale: questa alluvione apocalittica che sommerge un intero villaggio diventa quasi espressione della contemporanea “morte di Dio”. Cosa volevi dire con quella domanda, così profonda, ma lasciata in sospeso: “Cosa si nasconde nell’acqua”?
Penso che ci sia una quantità di “sommerso” enorme nel mondo in cui viviamo quotidianamente. Il mondo esiste solo come spazio percepito, eppure c’è tutto un insieme di cose, eventi, fatti che non possiamo vedere o sentire, ma solamente intuire. Ecco cosa volevo intendere con la metafora dell’acqua: quando il livello dell’acqua si abbassa si rivela il sommerso, ciò che solitamente non vediamo, l’oscura verità ontologica delle cose. In questo sta anche l’ambivalenza rappresentata dalle figure venerate dei santi che, corrotti dall’acqua, diventano demoni, cioè quanto in fondo vi è di più vicino all’umano.
- A un certo punto inserisci un racconto, Avere un orizzonte, che appare come una poesia in prosa. L’ho trovato straordinario perché riesci a trasformare in poesia lo sguardo posato per caso, per distrazione, sulle cose. Gli oggetti che vediamo quotidianamente, che magari osserviamo quasi senza vederli, diventano così letteratura e sembrano assumere un “senso altro”?.
Quel racconto in realtà non era nei piani. L’ho aggiunto in extremis quando ormai Le cattività domestiche stava già andando in stampa. La mia editrice, per fortuna, mi ha permesso di aggiungerlo, anzi, ne è rimasta talmente colpita da dirmi “Questo devi metterlo!”. Avere un orizzonte è nato per caso mentre osservavo le persone camminare per strada dal balcone della mia casa di Roma. Ho notato la differenza tra quanti camminavano guardando il cielo e quanti, invece, scrutavano per terra. Mi sono interrogato sulla varietà di prospettiva e da qui è nato un racconto che poi, in effetti, può essere letto come una poesia.
- La seconda parte della raccolta si intitola proprio Le cattività domestiche ed è strutturata in forma epistolare: il narratore invia delle lettere a delle persone assenti. Sembra delineare una sorta di saga familiare raccontata attraverso una varietà di punti di vista: ci sono due nonne, una buona e una “cattiva”, una cugina e la storia del suo fallimento, la storia commovente di un nonno e del suo legame profondo con il nipote. Ti sei ispirato a persone reali durante la scrittura?
Partiamo dal presupposto che mi sono divertito un mondo a scrivere questi racconti. Li ho scritti in un’estate, provato dal caldo e dall’afa, ma per me il momento della scrittura è stato assolutamente idilliaco. La seconda parte del libro, quella centrale, è autobiografica, in totale controtendenza con il lato fiction che ultimamente sta spopolando in Italia. Quello dedicato a mia cugina Daria è stato il primo racconto che ho scritto. Volevo scrivere la storia di un fallimento e quindi mi è venuta in mente lei e quella sua tragica esibizione con il violino. In realtà Daria è un personaggio positivo, la ammiro per la sua meravigliosa cocciutaggine: alla fine, sebbene la vita l’abbia sempre messa duramente alla prova, lei è riuscita a realizzare la versione migliore di sé.
- Il personaggio più commovente è quello del nonno, raccontato in Uccidere un gatto. È un racconto che mi ha colpito perché ti pone dinnanzi a un fatto che assolutamente non ti aspetti ed è un continuo deflagrare di emozioni potenti, ma al contempo scomode, disturbanti. Esprimi la rabbia, la vergogna, ma anche un senso quasi prodigioso di ribellione.
Sono felice che abbia suscitato questa emozione, perché mi sono commosso anch’io nello scriverlo. È la storia di mio nonno. Non aveva studiato, ma amava la cultura: collezionava tutte le raccolte enciclopediche o letterarie che vendevano in edicola, anche se magari poi non riusciva a leggerle, per lui però era importante conservarle e farne tesoro. Era orgoglioso di avere “un nipote scrittore”, sebbene nella nostra famiglia nessuno leggesse. Lo ricordo come un uomo buonissimo, elegante, generoso che nella sua vita non aveva mai fatto male a una mosca. Non uccideva nemmeno le vespe, preferiva aprire le finestre per farle uscire. Però c’era questa grave macchia nella sua vita, questo fatto che non si perdonò mai: l’aver ucciso un gatto, un gatto rabbioso e bizzoso, che aveva spaventato mia madre. Ho raccontato proprio quell’episodio che riassume in sé la cifra esatta della sua ribellione. Era una persona gentile, totalmente sottomessa e quel fatto, quell’unico evento, rappresentò forse il suo grido di rabbia, la sua volontà di reagire a un’aggressione totalmente ingiustificata, agli schiaffi gratuiti della vita. Lui quel fatto non se lo è mai perdonato. Forse sono poi questi eventi inattesi, impuri, di cui quasi ci vergogniamo, che tuttavia lasciano il segno della nostra esistenza.
- L’ultima sezione della raccolta si intitola Lucernario e racconta una genealogia familiare attraverso il tempo: infanzia, adolescenza, età adulta, vista attraverso lo sguardo del fratello del protagonista. Anche il lucernario, nella sua oggettività, è un elemento che ritorna a collegare tra loro le varie storie. Ha un significato simbolico?
Il Lucernario è quell’apertura che dà sul cielo, lo spiraglio che ti permette di contemplare i sogni. Mi piaceva questo rimando simbolico al desiderio autentico, a uno spazio senza limiti o confini che ci permette davvero di respirare ed esprimerci liberamente.
Tutta la terza sezione della raccolta è anche, sottotraccia, un omaggio a Gianni Celati che da tempo mi proponevo di scrivere. Un tentativo di dare risposta a quella sua straordinaria affermazione, che contiene in sé una domanda retorica: “Io vorrei sapere dove sono andati a finire tutti quanti, e se siamo davvero esistiti, se è proprio questa la vita.”
- In Educazione milanese, l’ultimo racconto, fai riferimento a una poetessa che conosci bene, una delle tue maestre, che si scopre essere Vivan Lamarque. È una delle tante “grandi signore della scrittura” che hai avuto il privilegio di conoscere di persona.
Conobbi Vivian Lamarque grazie all’intervista che le feci per il libro Mesdemoiselles. Le nuove signore della scrittura (Giulio Perrone Editore, 2016). Da quel momento è nata tra noi una grande amicizia. Lei mi chiama “Peter”, come Peter Pan. Vuole che suoni il suo pianoforte, anche se è vecchio e scordato e le mie mani sono arrugginite.
Ho grande stima di Vivian, la considero una delle mie Maestre, senza di lei non sarei quello che sono. Ma devo tanto anche a Biancamaria Frabotta, che purtroppo ci ha lasciato quest’anno.
- Ne parlano tutti come di una persona meravigliosa. Che ricordo hai di Biancamaria Frabotta?
Per me è stata uno dei gli incontri più importanti. Ma del resto era una sensazione reciproca, anche lei disse che conoscermi era stato “l’incontro più bello della sua vecchiaia”. La considero una delle più grandi Poete del Novecento. Lei sosteneva fermamente la poesia civile, ma non le dava mai definizioni, anzi quasi si infervorava: “Ma perché forse esiste una poesia incivile?”. Era davvero una Maestra, non solo quando era in cattedra alla Sapienza. Le piaceva scoprire i giovani talenti e poi metterli in dialogo tra loro. E poi era una persona umile, onesta, non si autocitava mai, non leggeva mai di proposito le sue opere. Da lei ho imparato a non avere peli sulla lingua. Da quando è morta Biancamaria mi sono ripromesso di dire sempre quello che penso. Non ho più paura di risultare scomodo oppure di dire cose sconvenienti, perché lei mi ha insegnato il coraggio e l’onestà. Biancamaria Frabotta mi ha insegnato a non accettare i compromessi, cosa che purtroppo oggi va molto di moda e spesso è pure di comodo, soprattutto in ambito editoriale.
- Tu hai avuto anche il privilegio di conoscere un’altra grande Poeta, purtroppo scomparsa di recente, Patrizia Cavalli.
Sì, ho un bellissimo ricordo di Patrizia Cavalli. La conobbi quando lavoravo a nottetempo grazie a Ginevra Bompiani, che era la sua migliore amica. Ci siamo conosciuti e non ci siamo più lasciati. Ho molti ricordi di momenti divertenti e goliardici vissuti con lei, tra cui il memorabile festival di Pordenone Legge. La intervistai anche per il libro Mesdemoiselles, ma poi decidemmo di non pubblicare l’intervista, perché purtroppo aveva appena scoperto la malattia.
- Tra le tue grandi Maestre scomparse citi spesso Natalia Ginzburg. Il suo racconto Valentino è stato uno dei primi “libri per adulti” che hai letto grazie alla tua amata nonna Silvana. Cosa ti ha insegnato Natalia e quale tra i suoi libri ti è più caro?
Natalia Ginzburg ha avuto un’influenza determinante sulla mia scrittura, come del resto, molte grandi scrittrice del nostro Novecento. Natalia Ginzburg mi ha insegnato che puoi dire le cose anche fuori tempo. Che un libro non deve essere attuale, questo aggettivo oggi abusato come se tutto dovesse avere una scadenza, ma che tutta l’arte è sempre contemporanea. Tra i suoi libri che amo di più c’è sicuramente Caro Michele, un libro epistolare che lei scrisse nel 1973 quando ormai le mode e i fenomeni letterari erano ben altri, più avanguardistici. Ma se dovessi proprio scegliere la mia opera preferita di Ginzburg, questa è Le piccole virtù, non un romanzo ma la raccolta delle sue prose.
In quelle pagine è racchiusa proprio la più alta virtù che c’è nell’uomo, ovvero lasciare libero l’altro.
Rosetta Loy, un’altra grande scrittrice purtroppo scomparsa di recente, un giorno mi riportò una frase che le disse Natalia Ginzburg, per me molto preziosa. Natalia sosteneva che la virtù più grande che sta nell’uomo non è la carità - come ci insegna il cristianesimo - ma la giustizia. Ecco, mi rispecchio molto in questa considerazione e ne faccio tesoro: “non la carità, ma la giustizia”.
Credo sia importante affermare questo principio di “giustizia” in un mondo che pretende di essere più inclusivo e, invece, rischia di diventare asfittico.
- Parliamo dei tuoi nuovi progetti. Tutte queste suggestioni mi lasciano intuire che l’attività di scrittura non si è fermata. C’è forse un nuovo un romanzo in arrivo?
Sì, un romanzo in effetti c’è. Lo sto scrivendo da circa un anno. Non posso dare molte anticipazioni, ma intanto dico che è ambientato a Roma. Ed è un romanzo sulla gelosia e anche sull’amicizia. Mi premeva raccontare cosa accade quando si scopre una persona improvvisamente diversa da come la si credeva di conoscere. Ancora non ho una data d’uscita e nemmeno un editore. Quando scrivo voglio sentirmi libero e non avere scadenze prefissate, quindi non cerco mai un editore prima che la storia sia conclusa. E come finirà questa storia ancora non lo so.
Recensione del libro
Mesdemoiselles. Le nuove signore della scrittura
di Giorgio Ghiotti
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Giorgio Ghiotti in libreria con “Le cattività domestiche”
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