L’entrata di Cristo a Bruxelles
- Autore: Amélie Nothomb
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Voland
"L’entrata di Cristo a Bruxelles" è un agile libricino contenente due novelle della celebrata scrittrice Amélie Nothomb (2a ed. Il Sole 24 ORE S.p.A. su licenza Voland s.r.l., 2011; 1a ed. VOLAND s.r.l., 2008, traduzione dal francese di Monica Capuani).
Il personaggio principale del primo racconto, “L’entrata di Cristo a Bruxelles”, è un giovanissimo parigino, il superbo e confuso Salvator, in corsa per il successo economico che gli sembra la via più giusta per conseguire l’attenzione del mondo, pur giudicando scarsamente importante ogni cosa (suggestioni contraddittorie che, in un’aporia inconscia, gli appaiono credibili entrambe). Si tratta di quello stesso confuso e velleitario sentire dei tanti che oggi cercano soddisfazione nel materiale, sia esso la ricchezza, la carnalità, la bulimica assunzione di cibo, la ricerca d’una magrezza sempre più macilenta fino alla morte o altro ancora. Il titolo si richiama a un quadro grottesco e blasfemo del 1888 (conservato oggi a Los Angeles nel Paul Getty Museum) del pittore belga James Ensor, artista asociale, egotista e tormentato come il protagonista della novella, il quale non a caso si chiama Salvator, analogamente al Cristo del dipinto antiumanista ensoriano. Egli lavora diligentemente per un maturo e ricco zio scapolo sperando nella sua eredità, ma il parente, un giorno, gli fa conoscere una bella giovane ventenne che l’anzianotto sta per sposare attendendone un figlio, come il nipote scopre stizzosamente. Venuto al mondo il pargolo, con odio Salvator gli pianta un chiodo nel cranio e fugge a Hong Kong, dove fa fortuna, si sposa malamente, divorzia e, passati due decenni, ritorna in Francia. A Parigi conosce una giovane ventenne di cui s’invaghisce, Zoe, nome che non a caso significa vita trattandosi d’una sopravvissuta a un grave fatto traumatico, ignorato da tutti e da lei stessa. Zoe soffre d’atroci mali di capo inspiegabili per i medici (un po’ inverosimile, dato che si scoprirà esserne stata causa un corpo estraneo finitole, tanto tempo prima, nel cranio e che qualunque radiografia avrebbe dovuto individuare). Si tratta d’una sofferenza che Salvator stesso eliminerà con un’artigianale operazione para chirurgica: l’essere umano è il salvator di qualcun altro cui, ma solo provvisoriamente, tenga; solo però da dolori contingenti, non dalla sofferenza esistenziale: nessuno per la Nothomb è un salvato in senso religioso o metafisico. In conclusione il protagonista ragionerà: “Non c’è amore più grande di quello edificato sulle macerie di un crimine inconfessato”; egli si sente “allo stesso tempo innocente e colpevole” nonostante le malvagità compiute. Immagino che la scrittrice guardi a ogni umana vicenda, quando scrive che “il bene e il male si mescolavano al punto che nessuno su questa terra sarebbe mai riuscito a separarli”. Dopotutto, si tratta d’un modo per assolvere sé stesso, per cui il protagonista è anche, anzi è in primo luogo, il salvator di sé nell’indifferenza morale. La coincidenza, anzi più in generale il caso, è tuttavia il vero protagonista, anche se immateriale, della novella, ed è in un certo modo il dio dello squallido Salvator, sebbene il caso oggettivamente non esista, sia solo un vocabolo di comodo che viene usato generalmente per indicare l’ignoranza delle cause d’un fenomeno quando esse siano estremamente complesse e, in buona parte, nemmeno immaginabili; ad esempio, si dice che è stato per caso che in un incidente aereo un solo passeggero è sopravvissuto mentre tutti gli altri e il personale di bordo sono morti, anche se certamente ce n’erano state precise cause fisiche, ma troppo numerose e intricate per individuarle e porle in sistema.
La seconda novella, “Senza nome”, mi è parsa celebrativa del far nulla senza bisogno di guadagnarsi il proprio sostentamento, vivendo nel piacere stordente inteso come unica meta di una vita noiosa perché assoggettata a un lavoro normalmente sgradito o, con non minore strazio, tormentata perché nell’indigenza derivante da forzosa disoccupazione. Nel freddo nord finlandese viene rappresentato tutto il mondo, ma questo potrebbe essere ugualmente raffigurato nel meridione, ché l’autrice parla del sud e del nord come di luoghi equivalenti: ovunque si è soli. Il protagonista nonché io narrante è un personaggio “senza nome” perché può essere chicchessia o meglio è, com’egli stesso afferma, “una moltitudine”. L’io-noi contiene nel proprio intimo un gelido deserto cui si è diretto alla ricerca della dama dei propri sogni, pur se, all’apparenza, non coerentemente – essendo a priori disilluso? Dice verso l’inizio:
“…il mio spirito si è addentrato nel nord di sé stesso. E la mia penna lo asseconderà”
Dopo un’avventura violenta in cui, affamato, mangia i suoi cani da slitta meno l’ultimo, da cui rischia d’essere mangiato, ormai alo stremo delle forze finisce salvo in un enorme rifugio colmo di stanze – forse una suggestione venuta all’autrice da certi racconti di Dino Buzzati? – ove quattro giovani uomini vivono insulsamente durante il giorno, guardando telenovele registrate, solo aspettando con brama la notte quando, nel rispettivo letto, ciascuno potrà abbracciarsi a una misteriosa entità erotica, personificazione della lussuria stessa. Mai più il protagonista, così come i quattro giunti prima di lui, abbandonerà quella sorta di Thule, un’isola di piacere nel mar bianco innevato della pianura finlandese, un ricovero materialmente gaudioso affrancante dalla fatica del vivere.
Direi che in entrambe le novelle l’unico “bene” presentato sia il godimento egoista e che nessun valore umanistico faccia, quanto meno, capolino (ad esempio non c’è accenno alla gioia che viene dal donare per amore senza chiedere un contraccambio). Sono narrazioni che possono essere lette da due angolazioni diverse a seconda del sentire morale o amorale – non dico immorale – del lettore: possono essere viste secondo un’ottica priva di valori, dispregiante la vita, come quella di molte donne e uomini dell’odierna società i quali hanno perduto la cosiddetta morale naturale e che, senza entusiasmo, puntano al vantaggio economico e al privato piacere; oppure, da una diversa prospettiva, le due novelle possono essere intese come condanne, sia pur solo implicite, del volgar-nichilismo oggi dominante. In ogni caso, esse non propongono alcunché di costruttivo e restano mere allusioni agli orrori che i mezzi d’informazione riportano, vivamente, ogni giorno. È giusto osservare nondimeno che l’autore di narrativa può avere come unico obiettivo il divertire e che se riesce nello scopo ha ottenuto molto, e penso che ai molti estimatori di quest’autrice le due operine piaceranno. Quanto al mio gusto, ho trovato noiosetta “L’entrata di Cristo a Bruxelles” e interessante la novella “Senza nome”, quanto meno fino a quando entra in scena la misteriosa forza erotica, personaggio anch’essa della storia, che ghermisce e strapazza di piacere il protagonista e gli altri ospiti del rifugio; direi che, al punto in cui l’io narrante afferma: “…e tutte le notti avrei atteso il piacere”, la storia avrebbe potuto terminare con vantaggio, lasciando al lettore d’immaginare il resto.
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