L’esilio dei figli
- Autore: Claudia Pozzo
- Casa editrice: Gremese
- Anno di pubblicazione: 2013
Difficile romanzare gli anni di piombo. A parte Nanni Balestrini (“Vogliamo tutto”, “Gli invisibili”), e Barbara Balzerani (“Compagna luna”, “Cronaca di un’attesa”) fatico a rintracciare autori degni di nota. Non credo sia una questione di “tragedia negata”, come sostiene Demetrio Paolin nel suo saggio dedicato alla narrativa sulla lotta armata, ritengo - piuttosto - risulti oggettivamente difficile convertire in drammaturgia l’articolata stagione dell’eversione italiana. Non fosse che lo scrittore fantastica-deforma-epicizza per dovere professionale, alla faccia dell’aderenza alla realtà che va spesso e volentieri a farsi benedire. Se consideriamo questo - peraltro apprezzabile - “L’esilio dei figli” (Claudia Pozzo, Gremese, 2013), ci accorgiamo di come richiami a più riprese i protagonisti autentici del brigatismo rosso, mascherandone l’effettiva identità (Renato Curcio diventa Renato Corti, Alberto Franceschini, Lucio Franchini, Margherita Cagol, Margherita Zanon). Perché? Alquanto forzato mi è parso anche l’espediente (tipicamente narrativo) di trasformare una “Comune” di Piazza Aquileia (Milano) nell’ombelico del mondo dell’eversione rossa (buona parte della storia e dei protagonisti degli anni di piombo, in un modo o nell’altro, di dritto o di storto, finiscono col “transitare” da lì). Se ci mettete poi la classica relazione amorosa irrisolta di contorno, il rischio del pastiche a sfondo brigatista potrebbe risultare bello che compiuto.
Per fortuna che “L’esilio dei figli” non si esaurisce qui: i suoi meriti risiedono, in primo luogo, nella capacità narrativa della Pozzo, introspettiva più che cronachistica, e dunque solida, in grado di inspessire quanto meno i personaggi principali. Inoltre ho come l’impressione che il contesto pre e post rivoluzionario rappresenti per l’autrice solo il pretesto per una vicenda-emblema sulle colpe dei padri che ricadono sui figli, sui traumi (ontologici prima ancora che psicologici) che la lotta armata lascia in eredità ai suoi interpreti e (soprattutto) ai suoi eredi. La trama è riassumibile, infatti, nei reiterati tentativi di sopravvivenza parigina di un classico rampollo di borghesia armata anni settanta, ancora diviso, a cinquantadue anni, fra lavoretti precari, riflessioni camusiane, flash back del passato (assemblee, espropri proletari, fughe, lutti, omicidi, latitanze, cambi di scuola), e altri idem, riguardanti la vicenda parallela della ragazza russa di cui è da sempre innamorato.
In ultima analisi: pur con le perplessità che mi derivano da un sottotesto non condiviso (non credo che tutti i brigatisti fossero dei velleitari e/o dei falliti annunciati), “L’esilio dei figli” è un romanzo che si fa apprezzare, non fosse che per il punto di vista inedito, quello "terzo", di un estraneo alla lotta armata (che non è, però, l’abusato familiare di una vittima del terrorismo), di chi non stava dalla parte dei “cattivi” e nemmeno da quella dei “buoni” (ammesso ce ne fossero) ma subiva suo malgrado per ragioni anagrafiche, preistoria e/o vocazione familiare. Alquanto evocativa mi sembra anche la copertina di Patrizia Marrocco, con la stilizzazione dell’immancabile stella a cinque punte (ormai è diventato quasi un logo) contigua all’icona parigina della torre Eiffel. Voto complessivo? Un sei e mezzo pieno: Claudia Pozzo scrive benissimo, ma avrebbe potuto osare di più.
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