L’isola senza ponte. Donne, uomini e storie di Sicilia
- Autore: Matteo Collura
- Genere: Raccolte di racconti
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: TEA
Nel capitolo introduttivo “L’ambizione di essere isola”, Matteo Collura, muovendo dal concetto di “Isola”, scrive:
Isole, isola. Un archetipo, il luogo ideale del narrare da Omero in poi, e dunque metafora perenne della vita umana. Tanto più che all’isola sono legate truci storie di condannati a pene da scontare in luoghi inaccessibili, dai quali era impossibile evadere, il mare a circondare ossessivamente la condizione di recluso senza speranza.
Cita in proposito Napoleone, Antonio Gramsci e Curzio Malaparte. Passa per Dante e riporta i versi di Alcyone tratti da “Meriggio” di Gabriele D’Annunzio. Siamo nell’opera L’isola senza ponte. Donne, uomini e storie di Sicilia (TEA, 2009), in cui il noto scrittore e saggista si rifa alla dimensione dell’isola come reclusione e isolamento.
Dall’isola in generale alla Sicilia il passo è breve. Dopo un riferimento allo scritto di Tomasi di Lampedusa tratto dall’opera Il Gattopardo in cui si dice che uscire fuori dall’isola a vent’anni è già tardi, riprende il brano del discorso di Pirandello dedicato a Verga in cui il noto agrigentino parla della tristezza dei siciliani dovuta al loro senso tragico della vita: si tengono appartati; si contentano del poco che dà loro sicurezza; diffidano del mare “che li taglia fuori e li fa soli” e avvertono il contrasto:
“tra il loro animo chiuso e la natura intorno, aperta, chiara di sole”.
Sicché, ognuno “si fa isola a sé” . Lo soccorre Gesualdo Bufalino che con il termine “isolitudine” intende dire che gli isolani chiudono dall’interno “la porta della propria solitudine” per un rapporto di complice sudditanza allo stesso modo di ogni naufrago avvinto al suo scoglio. Immagine, questa, certamente arcaica che ha resistito fino agli anni Sessanta, potremmo dire, e che però resta operante nel codice genetico. La conclusione del capitoletto è affidata a un’estrosa immagine di cui aveva parlato Andrea Camilleri nell’opera Il colore del sole (Mondadori, Milano, 2009).
Lampedusa era all’epoca di Caravaggio sede di eremo che indifferentemente accoglieva cristiani e musulmani. Da qui il modo di dire “eremita di Lampedusa” per indicare chi usa stare con il piede in due staffe a significare la piaga del trasformismo, degli accomodamenti o dei compromessi. “Ombre nei luoghi dei romanzi” si intitola il secondo capitolo che si apre con la citazione del titolo del libro dell’argentino Osvaldo Soriano:
Un’ombra ben presto sarai.
Chiaro il senso dell’evanescenza: tutto succede e tutto sfuma nell’indistinto, ed è questa l’occasione per parlare della letteratura come “visione”. Sono i luoghi a coinvolgere lo scrittore ed egli li descrive con riferimento ai testi letterari e con dovizia di particolari dalla carezzevole amabilità: “presepi siciliani” li chiama. Anche “spazi scenici” d’ampia veduta quali Agrigento e contrada “Caos” in cui nacque Pirandello, la Racalmuto di Sciascia, la Donnafugata del Gattopardo che è Palma di Montechiaro. Struggente poi la storia di Francesco:
Una storia d’amore e di guerra, che ha avuto come protagonisti un giovane siciliano e una ragazza friulana.
Apprendiamo che Francesco, sergente maggiore della Repubblica di Salò, è fratello del padre di Matteo Collura, fatto prigioniero dai partigiani che orrendamente l’avevano torturato e ucciso dopo averlo ripetutamente pugnalato, seppellendone infine il corpo in una cunetta.
Dopo quarantasei anni, Mattineddu, così la nonna lo chiamava, va in cerca di Albina Urizzi, la ragazza di suo zio, che allora aveva vent’anni, e la trova a Trieste. Lo scrittore umanamente partecipa con accorata pietas al ricordo di tutti gli uccisi:
Ma non furono soltanto i fascisti o ritenuti tali a pagare in quella spietata resa dei conti. Allorché visitai i cimiteri dei paesi friulani più esposti in quella guerra fratricida, su molte tombe lessi i nomi di giovani caduti dall’una e dall’altra parte.
Da qui la storia nella storia: quella di un giovane siciliano di Aragona, Salvatore Cacciatore detto “Ciro”, impiccato a Belluno dai nazisti nella primavera del 1945. Senza dubbio significativo lo sviluppo del narrato, fondato sulla specularità. Aveva una donna Ciro, Iva Boni. Matteo Collura rintraccia anche lei e la sua calda parola fissa nella pagina la loro storia.
È cronaca di meditazione questa commovente narrazione che fa riflettere sulle atrocità della guerra; alla fine non resta altro che la letteratura, ed è la scrittura che salva dall’oblio minimali vicende o “cronachette”, a dirla con Sciascia, di cui nessuno si sarebbe occupato.
In Luigi e Antonietta nella vampa della follia, avvalendosi della testimonianza scritta dal nipote Andrea, figlio di Stefano, viene raccontata la stagione conclusiva della vita di Pirandello, nel 1932 o ‘33, soffermandosi sull’incontro con la moglie, avvenuto dopo tredici o quattordici anni da quando era stata ricoverata in una clinica per malati di mente. Il destino beffardo e crudele si era preso gioco di loro, annientandoli come coppia, dopo essersi amati e odiati (Addirittura lei aveva accusato la loro figlia di rapporti incestuosi con il padre, andando oltre la gelosia che provava per le alunne di Luigi).
Di bellissima lettura gli altri saggi di cui verrebbe voglia di fare una lettura puntuale. Per esempio ci sarebbe da soffermarsi sui dipinti di Antonello da Messina o sulle “Gattoparderie” o sul personaggio di Concetta nel Gattopardo, donna tipicamente siciliana la quale si rassegna alla volontà vessatoria del principe padre e che dopo la morte di questi si ribella, annullando ogni ricordo per liberarsi da un passato che l’aveva resa vittima sacrificale.
L’associazione conduce lo scrittore al caso di Franca Viola (cui dedicherà un capitolo specifico nel volume Sicilia. La fabbrica del mito): la donna di Alcamo che, rapita e violentata Filippo Melodia nel giorno di Santo Stefano del 1965, si diede il coraggio di non sposarlo. Tante altre le suggestioni di cui il libro abbonda. Ci si troverebbe a dover sottolineare le letture verghiane e si riterrebbe significativo soffermarsi sulle pagine in cui si parla di Vitaliano Brancati e di Gesualdo Bufalino.
Avviandoci alla conclusione, pare opportuno accennare al capitolo “Due promontori” per dire che il paesaggio siciliano si esprime nel mito della bellezza con cui si vorrebbe contrastare l’irridemibilità espressa da Tomasi di Lampedusa. Dalle godibili pagine risalta quello di Cefalù non ancora omologato:
allo sfascio paesaggistico e urbanistico che dalla metà del secolo scorso la Sicilia è costretta a subire; tuttavia la sua Rocca sembra irradiare una sorta di beneficio antidoto alla demenziale foga edificatoria dei siciliani.
Nelle parole dello scrittore si rivela così il timore del degrado che si appropria di luoghi ritenuti sacri e si afferma il bisogno di recuperare il senso della contemplazione contro l’assoluto profitto.
La conclusione è affidata al capitolo “Il ponte dei giganti” che, rendendo esplicito il titolo dato al libro, ha il riferimento all’opera teatrale di Pirandello I giganti della montagna.
Potrebbe in sintesi dirsi che l’opera fa conoscere plurimi aspetti della Sicilia con l’avvertenza, scrive Collura nella Nota finale, che non si finisce mai di parlare della propria terra, di evocarla, di confrontarla, di allontanarla o chiamarla a sé.
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