Il poemetto di Pier Paolo Pasolini L’umile Italia, il cui titolo richiama l’espressione usata sia da Virgilio (“Eneide”, III, 522-23) che da Dante (“Inferno”, I, 106), si trova nella raccolta Le ceneri di Gramsci (Garzanti, 1957), ma era già apparso su “Paragone. Letteratura” dell’aprile 1954.
Suddiviso in tre sezioni, ciascuna comprende sette strofe di dieci versi con la prevalenza di novenari. L’argomento, scriveva Pasolini a Franco Fortini in data 3 settembre 1955, attiene alla differenza di due Italie:
“C’è una civiltà settentrionale “comunale” e una civiltà centro meridionale papalina o bizantina o monarchica”.
Inoltre è presente il dissidio lacerante tra la memoria mitica e il crollo delle idealità. Suggestiva l’apertura avverbiale, localizza lo sguardo del poeta che si posa sulla campagna romana dove risiede il sottoproletariato: non vi giunge il canto della rondine e al popolo è sottratta la festa sensuale.
Qui, nella campagna romana,
tra le mozze, allegre case arabe
e i tuguri, la quotidiana
voce della rondine non cala,
dal cielo alla contrada romana,
a stordirla d’animale festa.
Se la gioia è leggerezza d’animo, cupa è la tristezza; l’ardore della violenza, che nasce dall’aridità, si manifesta con atti estremi. Invece, la mite e virile passione, che illumina il mondo avvolgendolo “in una luce senza impurezze”, ha donato opere di civiltà, dando alle rondini l’opportunità di calare dall’alto per allietare il paesaggio, mosse dall’innocenza degli uomini illustri. L’immagine dei “Borghi del settentrione”, dove il poeta ha vissuto la giovinezza e in cui “da vero adulto” ha maturato le esperienze del mondo, si annoda alla presenza delle rondini. Resa suggestiva dal ritmo delle assonanze, vi si trova una sorta di abbandono lirico e richiama il periodo in cui Pasolini viveva a Casarsa. Affascina il dinamismo dello sguardo.
Nella quinta strofa della prima sezione l’avverbio di luogo “Qui” indica i “venti affricani” del sud che bruciano l’assolato inverno: “nascono / carnai di fiori, è già estate”. Povertà e malizia dei ragazzini rendono magra la vita e le stimmate resteranno nell’età adulta:
I ragazzetti dentro tasche
già impure infilano viziate
le mani: la loro violenza
infantile resterà nella nera
loro bellezza adulta. Esperienza
è ironica durezza: senza
rondini, di cani urla la sera.
Simbolo di gioiosi sentimenti, sono assenti le rondini dove regna l’abbrutimento della miseria materiale e spirituale. Quando mancano segni di rinascita, non volano e non cantano. Ed esse, dicono i versi,
“vanno a stridere su tetti / di grandi case dove l’arte / straripante dei secoli eletti / scolora come in vecchie carte”.
Anche le opere d’arte subiscono la violenza dell’incuria e dell’indifferenza. E anche il garrito delle rondini “smuore / in diversi spazi, in un mitico scenario”. Mitico perché ormai distante e lontano dalla realtà:
“E su di esso sbiadito / si chiude un cielo di memorie”.
È nella Roma del potere che s’ingroviglia “La jungla delle anime scure”, nutrita dalla “moderna vita”. Dure le necessità materiali e le bassezze; impure le confusioni e ciechi gli smarrimenti di stile. L’animo visionario ora si apre a una mareggiata: “oltre i rotti argini”, invade la capitale del potere, la cui “ansia nazionale” è fatta ancora di plebe. Nei dieci versi che aprono la sezione II torna l’immagine delle rondini in un’ariosa veduta, cui il poeta si rivolge, ritenendo che la loro “umilissima voce” sia quella “dell’umile Italia”.
Ah, rondini, umilissima voce
dell’umile Italia! Che festa
alle pasquali fonti, alle foci
dei fiumi padani, alla mesta
luce della piazzetta, dei noci,
dei filari a festoni da gelso
a gelso, che ai vostri garriti
verdeggiano più umani! che eccelso
significato in quel vostro perso
groviglio, nuovo, di gridi antichi.
Umiltà sta a indicare misura ed equilibrio. E specificamente modestia che si oppone a ogni forma di orgoglio e riservatezza. Edeniche sono le immagini e armonioso appare il paesaggio “dei fiumi padani”. Ai garriti i festoni da gelso “verdeggiano più umani”: è la natura a donare le rondini perché possano esprimersi all’interno del cuore e rinnovare le vite.
“Gli antichissimi incanti” sono luoghi autentici di una patria divenuta senza memoria. Si configura così l’aspirazione di Pasolini: è muovendo dall’oscurità che si raggiunge uno stadio elevato di civiltà:
“la luce è frutto di un buio seme”
Nell’incipit della terza sezione, il paesaggio si fa notturno e le rondini vibrano tra i castagni in cui trovano riparo. Primeggia la tradizione rurale e il poeta, evocando i “municipi settentrionali”, fa scorrere accattivanti fotogrammi del paesaggio settentrionale dalla pianura padana alle Alpi dove, rispetto al “greco meridione” che esprime il contrasto tra splendore e decadenza, manca il peso “dell’ossessa rassegnazione”. La quinta strofe si chiude con versi sapienziali:
“È necessità / liberarsi soffrendo, ma / lottando soffrire, la storia”.
Se la sofferenza è necessaria per la libertà dai vincoli, il “capire” e il “fare” sono parimenti indispensabili. E non vanno rimossi nell’oblio, in nome del “tempo vano” (quello della modernizzazione), le feste dell’umile gente. Idillico infine il richiamo
al tempo che vive il suo incanto con le rondini nel “solatio paese padano”.
Ma ad imporsi è la consapevolezza del mito perduto, reso dalla metafora dello “schianto” delle rondini: il loro addio tronca ogni illusione. Eppure, ci piace dire, che nella poesia si possa parlare ancora di rondini.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “L’umile Italia” di Pier Paolo Pasolini: analisi e commento del poemetto
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