Nella poesia di Giovanni Pascoli la figura della Befana diventa un pretesto per analizzare la realtà socio-culturale italiana, in particolare il divario insormontabile tra le famiglie ricche e le famiglie povere.
Il punto di vista della vecchina che vola a bordo della scopa è lo sguardo privilegiato di chi può vedere il mondo dall’alto, ricavandone una visione d’insieme priva di giudizi e moralismi. La poesia di Pascoli dedicata alla Befana è contenuta nella raccolta La Befana ed altro. Dal 1896, ci parla dunque dell’Italia di fine Ottocento eppure, leggendola ora, possiamo trovare dei parallelismi anche con il mondo di oggi: la figura della Befana sembra tracciare un tratto d’unione tra passato e presente, muovendosi lungo il filo della tradizione che è ciò che rimane uguale mentre le cose attorno cambiano.
Questa poesia Pascoli la scrisse il 5 gennaio 1897.
Fateci caso. C’è sempre un alone dolceamaro che circonda la festività dell’Epifania. Forse perché la Befana poi così amabile non è, dato che nelle sue calze porta anche il carbone, regalo che si traduce nell’occasione perfetta per un immancabile rimprovero. Poi ci sono i detti “L’Epifania che tutte le feste porta via” e le filastrocche che hanno sempre una nota stonata, stridente: “La Befana vien di notte, con le scarpe tutte rotte”. Per i bambini in età scolare la Befana coincide con l’ultimo giorno di vacanza, quindi diventa presagio di “scuola” e, va da sé, non promette nulla di buono.
Creatura notturna, un po’ maga, un po’ strega, la Befana è ombrosa, enigmatica, solitaria, difficile da amare. Nessun bambino di certo si augurerebbe di incontrarla mentre vola a bordo della sua scopa, meglio il ridanciano Babbo Natale con la sua soffice barba bianca e la sua scorta di renne. Forse solo con il tempo si impara ad apprezzare la figura di questa vecchina dalle scarpe rotte, non bella ma buona, che porta dolciumi ai bambini nella notte del 6 gennaio. Forse la Befana ha in sé qualcosa di molto più poetico di Babbo Natale, appunto per quel sottile gioco di luci e ombre che la definisce facendone una creatura letteraria interessante.
La poesia che le dedica Giovanni Pascoli si apre con una descrizione singolare che trasforma la Befana in un essere quasi etereo, che vive in simbiosi con la natura: “la neve è il suo mantello e il vento è la sua voce”. Viene dal cielo come tutte le cose inspiegabili e imprendibili. Inoltre la Befana di cui parla Pascoli presenta una caratteristica molto particolare, che non siamo soliti associare alle creature di fantasia, il poeta infatti ci dice che è “stanca”.
Nell’umanizzare la Befana emerge la voce del poeta-fanciullino che sfrutta l’immaginazione per mettere a contatto ciascun uomo con la parte più vera della realtà. In questi versi dall’alto valore morale Pascoli non dipinge l’infanzia come una stagione felice, il suo intento è un altro, vuole farci “vedere e sentire” il mondo per quello che è mettendo a confronto due realtà sociali differenti.
“La Befana” di Giovanni Pascoli: testo
Viene viene la Befana,
vien dai monti a notte fonda.
Come è stanca! la circonda
neve, gelo e tramontana.
Viene viene la Befana.
Ha le mani al petto in croce,
e la neve è il suo mantello
ed il gelo il suo pannello
ed è il vento la sua voce.
Ha le mani al petto in croce.E s’accosta piano piano
alla villa, al casolare,
a guardare, ad ascoltare
or più presso or più lontano.
Piano piano, piano piano.Che c’è dentro questa villa?
uno stropiccìo leggiero.
Tutto è cheto, tutto è nero.
Un lumino passa e brilla.
Che c’è dentro questa villa?Guarda e guarda… tre lettini
con tre bimbi a nanna, buoni.
Guarda e guarda… ai capitoni
c’è tre calze lunghe e fini.
Oh! tre calze e tre lettini…Il lumino brilla e scende,
e ne scricchiolan le scale:
il lumino brilla e sale,
e ne palpitan le tende.
Chi mai sale? chi mai scende?Co’ suoi doni mamma è scesa,
sale con il suo sorriso.
Il lumino le arde in viso
come lampana di chiesa.
Co’ suoi doni mamma è scesa.La Befana alla finestra
sente e vede, e s’allontana.
Passa con la tramontana,
passa per la via maestra,
trema ogni uscio, ogni finestra.E che c’è nel casolare?
un sospiro lungo e fioco.
Qualche lucciola di fuoco
brilla ancor nel focolare.
Ma che c’è nel casolare?Guarda e guarda… tre strapunti
con tre bimbi a nanna, buoni.
Tra le ceneri e i carboni
c’è tre zoccoli consunti.
Oh! tre scarpe e tre strapunti…E la mamma veglia e fila
sospirando e singhiozzando,
e rimira a quando a quando
oh! quei tre zoccoli in fila…
Veglia e piange, piange e fila.La Befana vede e sente;
fugge al monte, ch’è l’aurora.
Quella mamma piange ancora
su quei bimbi senza niente.
La Befana vede e sente.La Befana sta sul monte.
Ciò che vede è ciò che vide:
c’è chi piange, c’è chi ride:
essa ha nuvoli alla fronte,
mentre sta sul bianco monte.
“La Befana” di Giovanni Pascoli: analisi e commento
Ciò che è interessante notare è che la Befana di Pascoli viene raffigurata con un’iconografia divina, quasi cristologica: “ha le mani al petto in croce”, viene ripetuto due volte. Inoltre, nel finale, la Befana si isola sul monte (forse un sottile rimando al Monte Calvario?) e piange le pene dell’umanità, alle quali non può porre rimedio. La Befana riassume in sé le caratteristiche proprie della divinità: immanenza, onniscienza, tutto vede e tutto sente, eppure - questo è l’aspetto più straziante - non può in alcun modo porre rimedio al Male.
La poesia di Pascoli è dolceamara, come l’epifania. Strutturata in rima, come una filastrocca, si propone come un’alta riflessione morale.
Si tratta di una lirica fortemente sensoriale che sollecita soprattutto l’udito e la vista: ci mostra i due quadri sociali in maniera vivida e pittoresca, ci fa udire lo scricchiolio delle scale e il vibrare delle tende nella famiglia ricca, dove un lumino è acceso, e poi i sospiri e i pianti nella famiglia povera. In particolare il pianto di quella madre che non ha doni da offrire ai suoi figli ci pare di udirlo, tanto è insistita la ripetizione sulla parola “piangere” che ne amplifica lo strazio.
Il disagio suscitato dall’ultima parte della poesia è rimarcato e acuito dal mancato lieto fine. Tutti ci aspettiamo che la Befana compia l’atto risolutivo, auspichiamo l’intervento magico. Invece la Befana di Pascoli si limita a “vedere e sentire” e poi si ritira sola sul monte, pensosa.
Forse è proprio l’atto del pensare ciò che rende la Befana più umana e ce la fa percepire vicina, perché i suoi pensieri ombrosi, dopotutto, sono anche i nostri. La sua impotenza, in fondo, ci appartiene e nel finale questa appartenenza si fa ancora più tangibile attraverso l’uso dei verbi che rimarcano la continuità della pena della vecchina:
Ciò che vede è ciò che vide
Nulla è cambiato: il divario tra ricchi e poveri è insanabile nel mondo, ci saranno sempre dei bambini più sfortunati. L’angoscia della Befana è quindi senza tempo, come la pena di tutti gli uomini di buona volontà. Questa poesia Giovanni Pascoli la scrisse nel lontano 1897, eppure le condizioni non sono cambiate: la leggenda della Befana sopravvive in un mondo in cui di magia ce n’è così poca.
Oggi a questa visione dell’Epifania potremmo aggiungere un terzo scenario: quello dei bambini che patiscono le guerre e i bombardamenti. La Befana vede un mondo che non vorrebbe vedere, che le nemmeno le sue caramelle possono addolcire.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “La Befana” di Giovanni Pascoli: una poesia per l’Epifania
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