La Repubblica e l’Imperatore
- Autore: Denis Vidale
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2013
Napoleone Bonaparte, generale nemmeno trentenne nel 1797, fu il boia della millenaria Repubblica di Venezia, alla testa delle armate della Rivoluzione senza scarpe e con le uniformi stracciate. Col Trattato di Campoformido ridimensionò il territorio della Serenissima e la concesse in schiavitù all’Impero d’Austria. Cambiò idea nel 1805 e se la riprese, ma intanto la splendida storia della capitale dell’Adriatico (e in certe epoche del Mediterraneo) era definitivamente tramontata. Denis Vidale, ricercatore storico bassanese, ne parla in un saggio uscito in prima edizione nel 2016 per la Biblioteca dei Leoni di Castelfranco Veneto, La Repubblica e l’Imperatore (134 pagine, 12 euro).
È un argomento sostanzialmente disertato dalla storiografia, probabilmente per la consapevolezza oggettiva che al momento di cadere nelle mani e sotto i calcoli geopolitici dell’imminente primo console dei Francesi, la Serenissima era già una realtà economicamente decotta e istituzionalmente ingessata, dalla visione ristretta e debole dei suoi governanti e della maggior parte delle famiglie più importanti, che per secoli avevano retto le sorti della Repubblica del Leone di San Marco.
Giacomo Casanova, avventuriero piacente ma uomo lucido del tempo, denunciava apertamente “la schifosa avarizia e la vigliacca lungimiranza” del patriziato, teso a conservare lo statu quo piuttosto che riprendere una politica combattiva, che prevedesse ad esempio un riarmo e ammodernamento dell’esangue esercito, ridotto quasi esclusivamente ai fedeli ma insufficienti Schiavoni, com’erano chiamati i popoli slavi delle coste e dell’entroterra dei Balcani settentrionali.
Ma lo statu quo ante, in altri termini l’esistente, si limitava alla sola laguna veneta e dintorni, oltre all’Istria, alla Dalmazia e alle isole Ionie, un fantasma dei fiorenti possedimenti di Venezia nei secoli precedenti. La flotta de mar era miseramente costretta all’inattività. L’asburgica Trieste stava soppiantando Venezia nel ruolo di regina dell’Adriatico e dei commerci marittimi.
La visione conservatrice delle autorità della Repubblica aveva del tutto accantonato le prospettive di nuova espansione e si limitava a mantenere gli equilibri interni di natura sociale, politica e di censo. Gli aristocratici restavano una casta irraggiungibile per i borghesi, privi della minima chanche di accedere alla nobiltà, pur disponendo di liquidità e risorse. I contadini, gli artigiani e i servi non avevano altro che restare manodopera a vita e per generazioni. Non c’era una prospettiva di riscatto sociale. Ciononostante, le classi inferiori accettavano quasi bonariamente una condizione di subalternità senza futuro.
In questo scenario irruppe Bonaparte, col suo esercito di giovani ufficiali promossi dalla gavetta e di soldati straccioni spinti dalla certezza di ricchi bottini di guerra. Libero di agire per conto del Direttorio nel Nord Italia, fronte secondario delle operazioni militari contro la prima coalizione, il generale corso sconfisse da solo la potente Austria e si fece strada nel territorio della Serenissima, trasformato in campo di battaglia una volta passato il Mincio e il confine con la Lombardia.
L’esito della Campagna d’Italia del 1797 decretò l’estinzione della Repubblica di Venezia, i cui governanti si videro indotti ad abdicare, nella speranza di salvare un’istituzione millenaria. Ma il tentativo si rivelò vano, perché Napoleone divise il territorio e ne concesse gran parte al nemico, la Casa d’Austria, salvo tornare sui suoi passi nel 1805 e riacquisire il Veneto al neonato Impero francese. Ma le strutture della Serenissima erano state disgregate e l’area venne integrata nel Regno d’Italia di fedeltà transalpina.
Un anno prima, nel dicembre 1804, Bonaparte si era posto da solo sul capo la corona imperiale, ripetendo la cerimonia sei mesi appresso con quella ferrea d’Italia e ponendo così fine all’esperienza della Repubblica giacobina Cisalpina.
Nel lavoro di Vidale ci si chiede se la stagione della Serenissima avrebbe avuto un seguito, qualora non si fosse materializzata ad interromperla la figura di un condottiero coi capelli lunghi e la bandiera impugnata a due mani, per trascinare i suoi ad attraversare il ponte d’Arcole sotto il fuoco a mitraglia degli Austriaci.
Il ventinovenne raccomandato da Barras era allora un ufficiale di artiglieria originario della Corsica, non ancora l’empereur ma certo un figlio della Rivoluzione, che sconvolgendo gli assetti sociali aveva aperto prospettive inedite al valore e al merito, cancellando le carriere fondate sulla mera eredità di ceto.
Spicca la descrizione offerta dal podestà Mocenigo, tra “l’ammirato e l’inorridito”, di un “giovane risoluto nelle sue determinazioni”, che aggrediva ogni ostacolo. Qualsiasi atteggiamento anche innocente nel quale credeva di rilevare un contrasto lo faceva passare in un baleno alla ferocia e alle minacce. Guai a comportarsi davanti a lui con paura e debolezza: prendeva prontamente sopravvento, mentre raddolciva i suoi modi nei confronti di interlocutori capaci di sostenere con coraggio le proprie ragioni. Un uomo cervellotico.
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