La farfalla nell’uragano
- Autore: Walter Lucius
- Genere: Gialli, Noir, Thriller
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Marsilio
- Anno di pubblicazione: 2017
L’Oriente non è solo esotismo, non è solo fascino, mistero. Dall’Afghanistan non arrivano solo profughi e disperati ma anche tradizioni incomprensibili per noi europei, che talvolta fanno addirittura orrore e che si possono accostare all’infibulazione, sebbene abbiano a che vedere con la pedofilia maschile. È una pratica inaccettabile, importata nei Paesi Bassi, la novità di un poliziesco che esce dal coro di un genere narrativo che pure non risparmia niente di ripugnante. Bacha bazi è l’abuso pedosessuale che ci è dato incontrare con raccapriccio nelle pagine de “La farfalla nell’uragano”. Pubblicato da Marsilio nel 2017 (pp. 622, euro 19,50), è il primo romanzo di una trilogia messa in cantiere da un teatrante e sceneggiatore olandese, Walter Goverde, che firma col nome d’arte Walter Lucius e, da titolare di una casa di produzione, ha realizzato documentari sull’integrazione, commissionati dal governo olandese.
Nella traduzione letterale dall’afgano, Bacha bazi significa giocare con i maschietti, bambini dai cinque anni in su, venduti ai signori della guerra da genitori poveri, per qualche centinaio di dollari. Vestiti da danzatrici esotiche
“vengono utilizzati come compagni di letto da uomini bavosi di una certa età”.
È qualcosa che ha luogo in un mondo totalmente diverso dal nostro ma evidentemente quel mondo è arrivato fino al nostro: Farah Hafez ha riconosciuto l’abbigliamento, ha notato il trucco marcato, i gioielli che rivestono quella che a tutti è sembrata una bambina, investita appena all’esterno di un bosco, alla periferia di Amsterdam.
Era andata in ospedale per rassicurarsi sulle condizioni di un’avversaria, duramente abbattuta sul tappeto in un incontro sportivo regolare. In clinica ha notato per caso il piccolo malconcio e non l’è sfuggita la parola che pronuncia insistentemente, in modo incomprensibile per gli occidentali: “padar”, padre.
Farah è giornalista, lavora per una testata di sinistra. La bellezza bruna che traspare da lei deriva dai natali afgani. Dagli anni dell’infanzia a Kabul discende anche la sua abilità nel praticare il pencak silat, una lotta di destrezza di origini indonesiane che come tutte le arti marziali richiede forza ma, soprattutto, intelligenza e capacità di ragionare. È il padre, alla cui memoria la ragazza è legatissima, ad averla avviata verso quello sport tanto particolare.
L’intuito da cronista la spinge a raggiungere il luogo dell’investimento – viaggia a bordo di una Porsche Carrera del 1987, mica male! – dove gli agenti al lavoro si lasciano sfuggire la presenza di segni opposti di frenata: due automobili, da direzioni convergenti sul punto d’impatto.
Apprende anche di un’autovettura in fiamme poco distante, nel bosco. Vi si addentra ed è investita da un getto d’acqua dei Vigili del fuoco, col risultato di un imbarazzante effetto maglietta bagnata, davanti al quale non trattiene un sorriso ammirato l’ispettore di polizia Joshua Calvino, presente in coppia con un tipo corpulento più anziano, Marouane Diba.
I convenevoli del caso:
“Che ci fa qui?... Sono una giornalista… Non siamo autorizzati a rilasciare dichiarazioni”
sono interrotti dalla scoperta di due corpi carbonizzati nella station wagon incendiata dolosamente; l’odore di benzina sparsa si confonde con quello stomachevole dei corpi bruciati. Farah non riesce a trattenere la nausea, il poliziotto giovane si mostra indifferente all’orrore e soprattutto le sembra affascinante
Hafez, Calvino e Diba: in tre non fanno un olandese. Una è fuggita dall’Afghanistan a nove anni, il secondo è di famiglia italiana, il terzo è nato in Marocco, trasferito in Olanda quando aveva sette anni. Pur non essendo mai andato a scuola, il talento naturale nell’apprendere la lingua e parlarla senza accenti lo ha aiutato. Ma gli olandesi, quelli aveva continuato a non capirli per molto tempo.
Danielle Bernson, al contrario, è andata volontaria dall’Olanda in Africa, medico in un ospedale pediatrico da campo, per poi tornare, spinta da un senso di morte ma sopraffatta ora dai sensi di colpa. In servizio sull’ambulanza che ha soccorso il bambino, ha insistito per operarlo, ridurre le gravi fratture e suturare le ferite. È stato rischioso, ha temuto di perderlo, ma lo ha salvato.
Torniamo a Farah. Bella, brava, giovane, talentuosa nel pencak silat, professionalmente capace, ma tanto turbata. È assalita da crisi di panico nelle situazioni di confusione e da raptus d’ira quand’è sotto pressione. Tornando nel bosco, ha messo letteralmente il piede sopra un gioiellino caduto dalle vesti del bambino, tra il luogo dell’investimento e una costruzione isolata, abbandonata. Bel colpo.
La cocciutaggine di Marouane ha spinto invece la polizia in un vicolo cieco. È vero, una signora ha segnalato la presenza a terra del piccolo, però non lo ha investito. Gli agenti torchiano lei e il marito, un famoso presentatore televisivo, ma si ritrovano con un niente di fatto.
In scena entrerà un personaggio ulteriore, il giornalista Paul Chapelle e l’azione si sposterà a Johannesburg e in una Mosca scossa dal terrorismo.
È il primo titolo della trilogia Hartlund. Dove porteranno i prossimi due?
La farfalla nell'uragano
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