La moglie di Martin Guerre
- Autore: Janet Lewis
- Categoria: Narrativa Straniera
- Anno di pubblicazione: 2022
La moglie di Martin Guerre (Racconti edizioni, 2022, traduzione di Eva Allione) è una novella di un centinaio di pagine che non si faticherebbe a definire pirandelliana, se solo la sua autrice, l’americana Janet Lewis, avesse presto o tardi conosciuto lo scrittore di Agrigento. A quanto pare così non è, anche se il periodo in cui entrambi scrivono è quello della prima metà del XX secolo – l’una negli Stati Uniti, l’altro nell’Italia del Sud. A dispetto della distanza geografica che li separa, in altre parole, c’è nel capolavoro in prosa di Janet Lewis una sensibilità tutta novecentesca, un’indagine sulla frantumazione dell’io che si rivela ipnotica e terribile, al pari potremmo dire di opere come L’uomo, la bestia e la virtù o ancora meglio Così è (se vi pare).
Come capita d’abitudine a Luigi Pirandello, peraltro, pure Janet Lewis prende apertamente spunto dal mondo che la circonda, e nel caso specifico si rifà a un processo giudiziario capace di segnare profondamente il Sud della Francia nel XVI secolo. Un uomo di nome Martin Guerre, infatti, si allontanò un giorno dalla moglie, dal figlio e dal resto della sua famiglia per otto anni, partecipando nel frattempo a varie battaglie e spostandosi nell’area dei Pirenei e probabilmente ben più in là, fino a quando alle porte di casa sua non si presentò un uomo in tutto e per tutto simile a lui, che dichiarò di essere Martin Guerre in persona ma che non venne creduto né dalla moglie né poi da alcuni altri parenti.
La vicenda, per com’è rielaborata nella novella, ne ripercorre quindi il matrimonio, i primi anni vissuti nel villaggio di origine, la sparizione e poi gli interrogatori in tribunale, con un’enfasi particolare – e delicata, e raffinatissima – sui dilemmi etici da cui è assillata la moglie, tale Bertrande de Rols, convintissima di non ritrovare nel nuovo arrivato il vecchio coniuge, eppure impossibilitata a dimostrarlo scientificamente. Il Martin Guerre che conosceva e quello che ha fatto ritorno dopo quasi un decennio, infatti, dal punto di vista fisico sono due gocce d’acqua: non c’è episodio del passato che non venga ricordato, confermato, riattestato, e nello stesso tempo Bertrande si accorge comunque di alcune sbavature nei suoi comportamenti, di gesti e di tratti della personalità che non possono appartenere davvero a suo marito, nemmeno dopo che la guerra e le sue peregrinazioni lo hanno segnato e fatto maturare.
Niente di più intricato da risolvere, specie se il resto della famiglia non le crede, il suo ritrovato coniuge la tratta con dolcezza e affabilità, e l’intera comunità sembra giovare del suo ritorno. Nessuno vuole il suo male, nessuno Martin Guerre offende con i suoi atteggiamenti. Si tratta, insomma, di una persona perfino migliore del brusco e taciturno Martin Guerre di una volta, e che però sta forse tentando di rubare l’identità di un altro uomo appropriandosi dei suoi averi, circondandosi dei suoi affetti, procreando con la donna che aveva deciso di sposare un altro. Difficile, di conseguenza, stabilire come sia meglio procedere, e soprattutto per il bene reale di chi – non per niente, si legge a pp. 82-83:
“«Sorella» rispose, afflitta, «come posso negare la verità?»
«È la vostra verità, non la nostra» ribatté l’altra, in lacrime. «Per quella verità, a cui nessuno di noi crede, ci annienterete tutti. Non potremo mai più essere felici. Il podere andrà in rovina.»”
A differenza di una novella pirandelliana, tuttavia, La moglie di Martin Guerre non si configura come un’opera segnata da uno stile a singhiozzo, spezzato e incerto come lo sono i tempi moderni, anche perché la sua vicenda ruota intorno a una cultura e a un’ambientazione ben lontane dalla contemporaneità: il linguaggio è quindi misurato, elegante, e la precisione storica è a dir poco strabiliante. I dettagli giudiziari sono descritti con perizia e il ritmo è lento ma costante, scorrevole nel suo intento di informare con completezza, anziché in quello di stupire o di turbare con la sua mancanza di certezze. È la trama stessa a richiedere attenzione e a elargire suspense, e la sua autrice ne è ben consapevole, al punto da non affrettare mai i tempi e da rifuggire eclettismi o capriole del pensiero: la realtà e il suo gusto per l’inquietudine supera di fatto ogni forma di fantasia, e se da una parte ci si aspetterebbe che il caso resti irrisolto e problematico su più livelli, dall’altra parte la conclusione stupisce a maggior ragione con il suo risvolto sicuro, determinato, severissimo.
Nonostante l’ignorante fiducia della massa, la benevolenza accomodante della corte, le pressioni psicologiche della famiglia, l’atteggiamento paternalistico e patriarcale della famiglia di Bertrande, che preferisce crederla pazza o malata, fin quando la donna non rischia di diventarlo sul serio, sembra insomma che Lewis ci tenga a riaffermare un concetto tutt’altro che pirandelliano, stavolta, che la sua penna essenziale e vigorosa sa esprimere in poche ma vibranti parole:
“La verità è la verità. Non potrei cambiarla nemmeno volendo.”
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