La ragazza con il violino
- Autore: Giulia Mafai
- Genere: Arte, Teatro e Spettacolo
- Casa editrice: Skira
- Anno di pubblicazione: 2013
La ragazza con il violino si chiamava Antonietta Raphael. La vediamo assorta nello studio di uno spartito di Bach vestita con una lunga tunica informale e i capelli ribelli tagliati corti nella fotografia della copertina della biografia che la figlia minore Giulia le dedica. È il 1916 e la giovane Antonietta si trova a Londra, è già un’adolescente ambiziosa, caparbia, curiosa di scoprire il mondo, amante delle lingue, che non sa ancora che il suo futuro sarà in Italia, a Roma.
“Mia madre era una strega, ho sempre pensato che lo fosse. Per me era anzi la Regina delle Streghe, la Regina delle Baba Yaga, come alle volte mi piaceva chiamarla”.
È Antonietta Raphael, pittrice e scultrice lituana, vista attraverso gli occhi della figlia perché l’artista “sapeva quanto amore nascondessi in quell’appellativo”. Una figura di donna straordinaria, la quale sotto l’aspetto di latte, zucchero e miele nascondeva un’armatura d’acciaio brunito, degna di un guerriero vichingo. Grande artista nell’animo e nelle opere, la Raphael, compagna e in seguito moglie di Mario Mafai (1902 – 1965), con il marito e il pittore Gino Bonichi, detto Scipione, avrebbe realizzato nel 1929 il gruppo artistico denominato Scuola romana. Antonietta aveva una cultura frammentaria ma vasta ed eterogenea ma soprattutto “una grande personalità che permeava la nostra casa, la nostra educazione, la vita quotidiana”.
Nata il 29 luglio 1895 (scomparsa a Roma il 5 settembre 1975) sotto il segno del Leone a Kaunas, un piccolo villaggio lituano (“in lei vi era molto di felino, era uno strano impasto di forza e dolcezza”) Antonietta fu sempre per le tre figlie Miriam (1926 - 2012, giornalista, scrittrice e politica), Simona (1928) e Giulia (1930, nota costumista di cinema e teatro), una madre unica “diversa da tutte le madri, da tutte le donne che avessi mai incontrato”. L’anticonformista Antonietta, figlia di un rabbino, riparata a Londra insieme alla madre Kaja all’inizio del Novecento per sfuggire ai progrom antisemiti russi, aveva una gran massa di capelli ramati, gli occhi dal taglio leggermente a mandorla, di un colore cangiante fra il grigio e l’azzurro secondo l’umore e la luce. La futura artista, arrivata a Roma nel 1924, aveva conosciuto un giovane Mafai presso l’Accademia di Belle Arti di via Ripetta. Quella città affascinante ma ancora paesone di provincia dove il ventiduenne Mario cercava un nuovo modo di dipingere, era stata complice della nascita di un grande amore tra due persone molto diverse, attratte però da un “inesauribile bagaglio di conoscenze che avevano da offrire l’una all’altro”.
Il libro quindi non è solo una veritiera cronaca di una porzione importante del Novecento (il fascismo “le leggi razziali del ’38 ci lasciarono spiazzati”, la II Guerra Mondiale, il dopoguerra e la difficile ricostruzione), ma la cronaca di un grande amore che vide i protagonisti spesso sulle barricate, innamorati sì, ma eternamente litigiosi, “spiriti liberi” nell’Italia del ventennio fascista, che seppero raccogliere intorno a loro persone speciali, artisti, poeti, collezionisti.
“Credo che nella sua vita solo due cose abbiano veramente e profondamente contato: il suo lavoro e mio padre. Le figlie c’erano, ma venivano dopo, a debita distanza, importanti, importantissime, ma con un altro peso”.
Sono evocative le descrizioni della Roma dell’epoca attraverso la descrizione del mercato delle pulci in Campo de Fiori, e la Capitale nel 1935 con i vecchi garibaldini in Piazza Indipendenza mezzo appisolati sulle panchine, i volti segnati dalle rughe, le disordinate barbe bianche e indosso ancora le camicie rosse “stinte dal tempo e dalle molte battaglie, sul petto nastrini sdruciti e medaglie”.
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