Mi chiamerò la madame di una casa di prostituzione letteraria, la madame di un gruppo di scrittori affamati che producevano letteratura erotica per venderla a un collezionista.
Questo è l’incipit del racconto Marianne nella raccolta Il delta di Venere, quindici racconti scritti negli anni Quaranta da Anaïs Nin, pubblicato in Italia da Bompiani nel 1978.
Anche nel secondo volume di tredici racconti erotici Uccellini, pubblicato postumo nel 1979, la Nin è la Madama di una insolita casa di prostituzione letteraria di New York.
(...) Da me venivano molti giovani scrittori e poeti (...) avevano tutti una caratteristica in comune: erano poveri (...) La maggior parte dei racconti
erotici furono scritti a stomaco vuoto. Ora, la fame è ottima per stimolare l’immaginazione. (...) Prima di dedicarmi alla mia nuova professione ero conosciuta come poetessa come una donna indipendente che scriveva solo per diletto personale.
Si dice che fu un collezionista di libri a offrire a Henry Miller, l’autore di Tropico del Cancro e Tropico del Capricorno, la somma di cento dollari per scrivere racconti erotici, e fu lo stesso Miller a passare l’incarico alla Nin, all’epoca la sua amante e pure l’amante di sua moglie, la danzatrice June Mansfield.
Di questo ménage à trois ne parla la Nin nel primo volume dei sei Diari (1931-1966), che ispirò pure il romanzo Henry & June (1932), diventando nel 1990 il soggetto di un film dall’omonimo titolo diretto da Philip Kaufman.
È singolare che fu la Nin, all’epoca moglie di un ricco banchiere, a sostenere economicamente Henry Miller e a pagargli le stampe di Tropico del Cancro e, dunque, non era lei la scrittrice che scriveva racconti erotici a stomaco vuoto. La fame della Nin era altro. Era la necessità della scrittura, a partire dai suoi diari, il carteggio con se stessa.
Nei suoi Diari, oltre a Miller e al secondo marito l’attore Rupert Pole, ci sono uomini e donne di genio che hanno rappresentato la cultura bohémien della Parigi del primo Novecento e quella statunitense del Greenvich Village: da Antonin Artaud al surrealista André Breton, dal poeta Lawrence Durrell allo scrittore Gore Vidal, da Salvador Dalì a Pablo Picasso, dalla scrittrice Djuna Barnes allo psicanalista Otto Rank, di cui fu anche l’amante.
Chi era Anaïs Nin, la scrittrice scandalo del Novecento
Autrice scomoda e criticata per le sue opere e per la sua vita spregiudicata, costellata di passioni per uomini e donne, cresciuta tra l’Europa e New York, Anaïs Nin (1903 – 1977), nata in Francia da genitori cubani è stata non solo una icona dell’erotismo femminile, ma una scrittrice a tutto tondo con opere di saggistica come D.H. Lawrence. Uno studio non accademico e la raccolta Mistica del sesso (Fazi, 1997), il poema in prosa la Casa dell’incesto (Feltrinelli, 2001) e i romanzi Le quattro stanze del cuore (Fazi, 1999), La seduzione del Minotauro (Fazi, 2000), Collages (Fazi, 2004), Figli dell’albatros (Fazi, 2001), Scale di fuoco (Fazi, 1998).
“Le quattro stanze del cuore” di Anaïs Nin: trama e analisi
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Nel breve romanzo Le quattro stanze del cuore (1950), edito in Italia da Fazi, Anaïs Nin descrive un sofferto e soffocante ménage à trois, ambientato in una romantica Parigi.
Se il lettore si aspetta il registro narrativo e l’eros spregiudicato e morboso di Il delta di Venere e Uccellini, questo romanzo ha una diversa architettura con le fondamenta ben piantate nella descrizione di un amore assoluto e profondo minacciato dalla paura, dalla gelosia e dai rimpianti.
La Nin ben conosce, dopo l’esperienza con Otto Rank, il lavoro dell’analisi e dell’introspezione per condurre una riflessione su sé stessa e sull’amore, definito “il grande narcotico”.
Scrive la Nin in questo romanzo che:
Ogni amante potrebbe essere portato in tribunale come assassino del suo proprio amore.
E ancora:
L’amore non muore mai di morte naturale. Muore perché noi non sappiamo come nutrirlo, muore di cecità ed errori e tradimenti. Muore di malattia e ferite, muore di stanchezza, si avvizzisce, si appanna, ma non muore mai di morte naturale.
Afferma Djuna, la protagonista di questa storia.
Djuna è innamorata di Rango, uno zingaro guatemalteco che suona la chitarra:
Idolo dei nightclub, dove uomini e donne (...) tra un bicchiere e l’altro bevevano dalla sua voce e dalla sua chitarra le pozioni e gli aromi di strade aperte, le serenate alla libertà, le droghe degli agi e dell’indolenza.
Il loro amore cresce e si consuma ogni notte su un vecchio e malandato barcone ormeggiato sulla Senna, Nanette, con il tempo scandito dall’enorme orologio della stazione Quai d’Orsay, dove:
Avevano realizzato il sogno di tutti gli amanti: un’isola deserta, una cella, un bozzolo, in cui poter ricreare insieme un mondo, da capo. Al buio si donarono l’un l’altra i loro molti sé, evitando solo i più recenti, quegli degli anni che avevano vissuto prima di incontrarsi, perché era un regno pericoloso dal quale sarebbero potuti nascere dissenso, dubbi e gelosie.
Tra i più recenti sé però c’è Zora, la moglie di Rango, anche se tra di loro non c’era alcun vincolo fisico, come accade tra fratello e sorella.
Durante il giorno il bel musicista abbandona il bozzolo per tornare dalla moglie, una giovane molto ammalata, per accudirla, provando per lei solo una grande compassione.
Rango aveva due fuochi da accendere, uno a casa per Zora, e uno alla barca per lei.
Nasce così – come era accaduto nella vita della stessa Nin – un triangolo soffocante:
Erano improvvisamente una trinità, con gli inesorabili bisogni di Zora a guidare ogni loro movimento, a dirigere il loro tempo insieme, a dettare le ore di separazione.
È lo stesso Rango a chiedere a Djuna di prendersi cura di Zora: “Rango (...) volle che Zora e Djuna diventassero amiche” e quella è una richiesta molto impegnativa per Djuna che:
Non aveva il coraggio di dire: preferirei non vedere Zora, non conoscere la tua seconda vita. Preferirei conservare l’illusione di un amore esclusivo.
Tra le due donne nasce una relazione difficile, una sfida nella gestione di Rango, che sfocia nel tentativo di Zora di uccidere Djuna: “...la vide mentre si chinava su di lei, e urlò. Teneva in mano un vecchio spillo da cappello e stava cercando di pugnalarla”.
Nelle ultime pagine Djuna desidera l’affondamento del barcone, oramai percepito come una prigione:
...andò in punta di piedi nella cabina di prua, guardò attraverso i piccoli oblò sbarrati, come attraverso le finestre di una prigione, si abbassò sul pavimento ammuffito e tirò via una delle tavole, invitando il diluvio ad affondare quest’Arca di Noè che navigava verso il nulla.
Ma l’Arca sopravvive all’inondazione.
Le quattro stanze del cuore è un romanzo complicato, a volte noioso e ripetitivo direbbe oggi un editor alla ricerca di un testo dalle facili emozioni per un lettore poco preparato: verboso, dialoghi lunghi e irreali, drammaturgicamente povero, intellettuale, troppo centrato sull’introspezione di Djuna e quella particolare conformazione del cuore:
“Il cuore ... è un organo... con quattro stanze...Un muro separa le stanze di sinistra da quelle sulla destra, e fra loro non è possibile alcuna comunicazione...”.
In alcune stanze, isolate, ci sono la dolcezza e il presente; in altre il passato con le sue ferite e gli amori finiti.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Le quattro stanze del cuore” di Anaïs Nin: analisi di un romanzo controverso
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