Lepanto. I piemontesi combattono
- Autore: Massimo Alfano e Giorgio Enrico Cavallo
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2021
Sedere al tavolo delle grandi potenze dopo aver preso parte a una guerra con un proprio corpo di spedizione: una costante nella storia dei Savoia. Il piccolo Regno sardo inviò un contingente di bersaglieri nella guerra di Crimea 1854-56, al fianco di francesi, inglesi e turchi. Ora apprendiamo che tre galere sabaude hanno combattuto la battaglia di Lepanto, che consentì alla Cristianità di arrestare l’avanzata ottomana verso l’Europa nel 1571. Massimo Alfano e Giorgio Enrico Cavallo hanno dedicato un saggio alla partecipazione della minuscola marina torinese allo scontro del 7 ottobre nelle acque di Patrasso. È stato pubblicato a ottobre 2021 dalle Edizioni Pathos di Torino (176 pagine) col titolo Lepanto. I piemontesi combattono, l’introduzione di Paolo Thaon di Revel e le illustrazioni dello stesso Alfano.
Massimo Alfano, componente del Centro di geopolitica e strategia marittima e presidente del Museo civico navale di Carmagnola, è pittore, disegnatore navale, scrittore di numerosi saggi di storia marinara e militare, appassionato dell’epoca del vapore e ritrae anche soggetti della Marina sabauda e della Marina del Regno di Sardegna. Giorgio Enrico Cavallo insegna lettere da anni, è giornalista e scrittore, attento in particolare alla storia del Piemonte.
Quanto al piccolo Ducato di Savoia, alla vigilia di Lepanto aveva un limitato sbocco a mare, a Nizza — Genova era ancora una Repubblica marinara autonoma — e solo da poco poteva considerare Torino come capitale, dove Emanuele Filiberto Testa di Ferro aveva deciso di stabilirsi nel 1563, dalla natia Chambery.
Le esigenze di contrastare la pirateria barbaresca nel Tirreno e proteggere i commerci marittimi sabaudi avevano convinto il capace duca ad allestire nel bacino nizzardo una flottiglia di galee, sia pure modesta. Quella marina savoiarda poteva contare su pochi ma decorosi battelli ed era però penalizzata dall’insufficienza di galeotti in numero adeguato ad armare i remi. Per alimentare di braccia il motore navale di quei tempi, si faceva ricorso all’arruolamento di “buonevoglie” nei settori più poveri della popolazione, rematori volontari, non incatenati al tavolaccio, che accettavano la fatica in cambio di una paga modesta.
Il coordinamento dell’armamento e il comando della squadra vennero affidati al governatore di Nizza, Andrea Provana di Leynì, uomo di visione illuminata e moderna, ammiraglio dei battelli piemontesi nella battaglia di Lepanto.
Ci si domanderà il perché dell’interesse di questo episodio, visto che le unità dei Savoia impegnate sono state appena tre, tra le due centinaia di battelli della Lega Santa, opposte al più numeroso ma meno armato naviglio turco. All’appello del papa contro il pericolo musulmano — Pio V, unico pontefice piemontese — avevano risposto Spagna, Venezia, il Regno di Napoli, la Repubblica di Genova, i Cavalieri di Malta e i Ducati dell’Italia centrale, oltre ai Savoia, che con il contributo al successo della causa cristiana cominciarono a farsi avanti come protagonisti a qualche titolo delle vicende mediterranee, replicando sul mare la già congeniale condotta di piccola potenza territoriale a guardia delle Alpi occidentali. Il Ducato sabaudo riuscì così ad affermare la propria affidabilità di alleato anche in campo marittimo.
Mentre gli storici hanno dato la giusta considerazione all’ammiraglio Provana e a Emanuele Filiberto, hanno dimenticato l’apporto alla battaglia in mare marinara, quasi fosse privo d’importanza. L’hanno di fatto cancellato.
Invece, la piccola squadra sabauda, impegnata alla destra dello schieramento, contro le imbarcazioni al comando di un rinnegato calabrese, il temibile Uluch Ali, si era comportata bene, fino allo stremo delle capacità combattive. La Capitana aveva subito perdite umane consistenti e danni strutturali. La Piemontesa era ridotta anche peggio (solo dodici superstiti a bordo e tutti feriti). La Margarita, sebbene la meno affidabile in partenza, aveva mantenuto la sua posizione nella squadra di Gian Andrea Doria, eseguendo le manovre richieste dal grande ammiraglio. Sembrava comunque destinata alla demolizione.
Gli autori mettono in risalto l’apporto dei tanti archibugieri sulla Capitana, come sulla maggior parte delle galere della Lega. Il loro fuoco fece la differenza, tanto quando attaccati da forze quasi doppie e arroccati a poppa in posizione di difesa, che nel contrattacco dopo l’intervento della riserva. Al tiro degli archibugi non c’era riparo a breve distanza, se non con corazze di altissima qualità e i turchi lo subirono senza replicare, perché si affidavano quasi esclusivamente a lame e armi da lancio, riponendo poca fiducia in quelle da sparo, almeno fino a Lepanto. Ma i loro pur numerosissimi archi si rivelarono incapaci di invalidare avversari mediamente protetti, in uno scontro navale condotto con determinazione da combattenti cristiani organizzati e non disorientati, come quelli che i barbareschi erano abituati ad aggredire nel Mediterraneo, gli equipaggi delle navi mercantili isolate.
Meno significativo l’apporto dei cannoni, per la difficoltà di ricaricarli in combattimento, dopo la prima salva.
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