Madame la Dostoevskaja. Una storia d’amore e di poesia a Mosca
- Autore: Julia Kissina
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Straniera
- Anno di pubblicazione: 2020
Quando si parla di forma e contenuto di solito si inciampa in una sterile dualità, laddove la prima sarebbe attinente ai soli elementi espressivi, e il secondo alla tesi. Quasi che i due componenti del discorso narrativo procedessero per compartimenti stagni, disgiunti l’uno dall’altro. La recente lettura del romanzo di Julia Kissina Madame la Dostoevskaja. Una storia d’amore e di poesia a Mosca (Scritturapura 2020, trad. Giannandrea Luisa) rivela, al contrario, come negli episodi letterari più riusciti, forma e contenuto si evidenzino come funzionali l’uno all’altro: la forma come espressione intrinseca del contenuto.
La scrittrice ucraina Julia Kissina è una delle autrici più conosciute dell’avanguardia letteraria russa, il suo taglio discorsivo solo in apparenza stralunato, determina in realtà l’efficienza di uno sguardo mirato alla rivelazione delle contraddizioni e dei conflitti sociali. Il fatto che Madame la Dostoevskaja trasudi di un umorismo a tratti paradossale, non elide affatto – anzi rinforza, sorreggendola quasi – la vena “civile” attraverso cui il microcosmo intellettuale russo, negli anni Ottanta del governo sovietico, viene inquadrato. A pagina 44 per esempio, è declinato il ritratto farsescamente crudele dell’addetto culturale-tipo in relazione alle sue consumazioni alcoliche:
“La vita letteraria a Mosca consisteva in un libero, sfrenato ed eterno baccanale. Gli alcolici si distribuivano in base al genere:
1. Scrittori di prosa: vodka e porto
2. Giornalisti: cognac
3. Critici: vodka
4. Redattori, lettori editoriali: cognac, vino
5. Correttori di bozze: liquore all’uovo, liquore fatto in casa
6. Compositori tipografici e stampatori: acqua di colonia, spumante, ecc.
I poeti invece bevevano di tutto.”
Il romanzo è sfrenato, dissacratorio, radicale, al limite del punk. La vicenda di formazione — artistica ed esistenziale — di “Elephantina”, altrimenti detta “Madame la Dostoevskaja” (nel romanzo tutti gli artisti si danno soprannomi strampalati), posseduta dal doppio demone dell’arte e della stravaganza, in un Paese (l’URSS) dove regole e conformismo invece abbondano, per storia e diktat di governo. Lasciata la provinciale Kiev per Mosca, a contatto con la fauna — più o meno proibita, più o meno ispirata — di venerati maestri e giovani promesse della scrittura, Elephantina incrocia, fra gli altri, Allen Ginsberg in trasferta anticapitalista; provando persino il brivido di un vero interrogatorio del KGB.
Insomma Julia Kissina maneggia con poetica feroce il tessuto magmatico della Mosca pre-perestroika, in un reiterato susseguirsi di proiezioni mentali, relazioni (non sessuali, l’Elephantina ha deciso di morire vergine), e iniziazioni bohème a un passo dalla farsa come dalla tragedia.
In qualsiasi tempo e a ogni latitudine, l’inventiva come l’enfasi sono prerogative dei migliori poeti, l’(auto)ironia quasi mai: Julia Kissina di quest’ultima invece ne ha da vendere. Unitamente all’acume:
“Anche a Peredelkino era autunno. Su ordine del ministero della Cultura ci risiedevano gli scrittori. Anche le mucche locali scrivevano. Ogni cane randagio era uno scrittore randagio. Ma la cosa più bella di Peredelkino era il cimitero degli scrittori. Correva voce che una volta qualcuno avesse avvistato un’oca sulla tomba di Boris Pasternak. Da quel momento in poi le oche erano considerate reincarnazioni di poeti estinti. Erano una specie protetta e nessuno poteva dar loro la caccia”. (pag. 55)
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