Riuscite a immaginare un unico giornale sul quale comparvero le firme di Truman Capote, Sylvia Plath, Ray Bradbury, Flannery O’Connor, sino ad arrivare a Joan Didion e alla contemporanea Joyce Carol Oates? Sembra un sogno letterario, ma è accaduto davvero, grazie alla rivista americana Mademoiselle che negli anni ha saputo radunare le migliori penne in circolazione, non sbagliando un colpo: oggi è nota per aver lanciato le carriere dei maggiori scrittori della letteratura mondiale.
Tutte le firme letterarie di Mademoiselle
Su quelle pagine patinate apparivano consigli di bellezza e di moda, affiancati da interventi più audaci come How to Fall Madly Out of Love e racconti di alta letteratura come testimoniano i pezzi di Flannery O’Connor o di una certa Shirley Jackson.
Scopriamo la storia della rivista Mademoiselle, ma soprattutto le firme imperdibili degli autori che negli anni hanno vergato le sue pagine. Se vi suona stranamente familiare è perché si tratta proprio della rivista citata dalla straordinaria Sylvia Plath nel suo libro capolavoro La campana di vetro: proprio così, era la rivista Ladies’ Day (chiamata così nel libro, Ndr) in cui in quella memorabile estate del 1953 una giovane Sylvia si recava per svolgere il suo stage in una redazione newyorkese. In realtà l’avventura di Mademoiselle era iniziata molti anni prima ed era ancora lontana dal concludersi, avrebbe avviato molte altre carriere letterarie, tra cui quella insospettabile di un certo Ray Bradbury e dell’indimenticabile Joan Didion.
Mademoiselle: la storia di una rivista senza eguali
Il primo numero della rivista femminile Mademoiselle uscì a New York nel 1935, pubblicato dall’editore “Street and Smith”. Fu subito un successo enorme, tanto che in seguito Mademoiselle sarebbe diventata una delle colonne portanti del colosso editoriale americano Condé Nast, sino alla sua chiusura avvenuta nel novembre 2001 a causa della perdita degli abbonati, probabilmente dovuta alla concorrenza di altre riviste più moderne, schiette e sessualmente più esplicite come la nuova Cosmopolitan.
Una delle ragioni per cui Mademoiselle all’epoca era così amata è che fu una delle prime riviste a trattare le lettrici come persone consapevoli: sulle pagine del magazine non ci si limitava a parlare di moda e costume, ma si trattavano anche argomenti più seri e di attualità. Tra gli innegabili punti di forza vi era anche il fatto che, sulle pagine di Mademoiselle, per la prima volta gli abiti erano presentati accompagnati dal prezzo e fu inoltre inaugurata da Betsy Talbot Blackwell, nel 1937, una innovativa “rubrica di shopping” a prezzi accessibili che avrebbe rivoluzionato la concezione di moda degli anni Trenta e oltre.
Nel tempo Mademoiselle divenne un autentico sogno ad occhi aperti soprattutto per le ragazze che sognavano una vita letteraria, poiché la rivista ogni anno offriva uno stage della durata di un mese a New York a un gruppo strettamente selezionato di venti studentesse meritevoli. Le fortunate venivano chiamate Le Millies e, dalla testimonianza di Plath ne La campana di vetro, possiamo intuire che le “elette” erano sottoposte a uno stress notevole e per loro la vita non era affatto facile. Vivevano tutte insieme nell’esclusivo Barbizon Hotel, un residence situato a soli otto isolati di distanza dall’ufficio di Madison Avenue dove aveva sede la rivista, e venivano svegliate agli orari più improbabili: per “Le Millies” insomma esisteva un’unica cosa, il lavoro a Mademoiselle.
L’esperienza di Sylvia Plath a Mademoiselle
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Una delle più interessanti testimonianze della vita quotidiana nella redazione di Mademoiselle ce la offre Sylvia Plath nel romanzo Bell Jar (1963), in italiano La campana di vetro.
L’unico libro in prosa di Plath, tra l’altro strettamente autobiografico, ci narra le vicende di una certa Esther Greenwood, alter ego di Sylvia Plath, che nell’estate del 1953 vince l’agognato stage nella rivista e diventa una de Le Milles. L’esistenza della brillante studentessa quell’estate sembra essere piena di promesse, ma in realtà non è così. Dietro la sfavillante vita newyorkese si cela l’ombra insidiosa della depressione, contro cui la stessa Plath combatterà tutta la vita sino al tragico epilogo. L’ambiente competitivo di Mademoiselle fece uscire un lato inedito della Plath, che in quei giorni frenetici di stage si sentiva come “una donna elettricamente viva, sulla soglia dell’età adulta”.
Nella realtà Sylvia Plath aveva vinto il concorso di narrativa bandito da Mademoiselle con il racconto Sunday at the Mintons e per lei l’esperienza estiva nella redazione newyorkese fu gratificante, ma deleteria. Tutto ruotava attorno al lavoro, racconta: si passava dall’albergo al lavoro, dalle feste al lavoro, avanti e indietro. Terminato lo stage, nell’agosto 1953, Plath tentò il suicidio per la prima volta; non le riuscì e per lei iniziò la lunga trafila dei ricoveri e l’elettroshock narrati anche in molte sue poesie come la celebre Tulipani.
Tuttavia, forse anche per l’eternità letteraria che le ha conferito, Sylvia Plath rimane una delle eterne stagiste di Mademoiselle, malgrado vi lavorò a tutti gli effetti per appena un mese.
Recensione del libro
La campana di vetro
di Sylvia Plath
Mademoiselle e la scoperta di Truman Capote e Ray Bradbury
Le pagine patinate di Mademoiselle lanciarono anche grandi nomi della narrativa americana, tra cui Truman Capote che sulla rivista pubblicò il suo primo racconto Miriam che gli valse il riconoscimento di Migliore prima pubblicazione nel 1946. Quel racconto attirò l’attenzione di alcuni editori molto influenti, tra cui Bennett Cerf che propose al giovane autore un contratto per un romanzo. Dopo l’esordio su Mademoiselle, Truman Capote avrebbe pubblicato il suo primo libro Other Voices, Other Rooms (1948) che per nove settimane consecutive sarebbe rimasto nella classifica dei libri più venduti.
Sempre grazie a Mademoiselle oggi possiamo leggere un altro capolavoro: Fahrenheit 451 di Ray Bradbury. Bradbury inviò un racconto, dal titolo Homecoming, a Rita Smith, negli anni Quaranta editor di Mademoiselle oltre che sorella di Carson McCullers (il cui vero nome era, per l’appunto, Lula Carson Smith, Ndr). Si racconta che fu proprio Truman Capote a trovare una delle pagine di Bradbury nel cestino dei rifiuti dell’ufficio e a portarlo alla Smith consigliandole caldamente di leggerlo. Fu dunque un intervento fortuito, avvenuto nella miracolosa redazione di Mademoiselle, a rivelare al mondo il talento di uno dei maggiori autori di fantascienza.
Rita Smith sostenne la pubblicazione del racconto e divenne un’amica di lunga data di Bradbury. La rivista acquistò il racconto di Bradbury per 400 dollari e Smith, insieme all’editore di Mademoiselle George Davis, commissionò la storia e vi costruì intorno un intero numero a tema Halloween.
L’esperienza Joan Didion a Mademoiselle
Non meno curiosa è l’esperienza di Joan Didion che approdò alla redazione di Mademoiselle a vent’anni, nel 1955. All’epoca di Didion era una sconosciuta studentessa dell’università di Berkley, in California, che amava trascorrere il proprio tempo libero facendo rafting nella valle di Sacramento, e d’improvviso - ma per sua volontà - si trovò catapultata a New York.
Nella classe di apprendisti del 1955, oltre a Joan Didion, figuravano la futura scrittrice di cucina Gael Greene e la scrittrice Janet Burroway. Una delle compagne di casa di Plath allo Smith College, la futura storica dell’architettura Jane Truslow Davidson era invece caporedattrice ospite.
In questo strano incrocio di destini ecco lei, Joan, sulla soglia di una brillante carriera. Uno dei compiti che spettava agli stagisti durante il mese di prova come guess editor era quello di intervistare un celebre scrittore. A Didion toccò intervistare la scrittrice californiana Jean Stafford, che all’epoca aveva già pubblicato con successo tre romanzi. In quell’occasione Stafford rivelò alla giovane Didion che secondo lei in realtà “i romanzi stavano diventando quasi irrilevanti” nella società culturale, inoltre le confessò di essere sempre ansiosa in procinto di una nuova pubblicazione. Le diede anche un consiglio: “l’unica cosa che ti salva è pensare che stai scrivendo meglio che puoi”.
Stafford non avrebbe mai completato il romanzo cui stava lavorando quell’estate; ma l’intervista di Joan Didion fu un successo, la sua prima pubblicazione su un giornale nazionale. A fine anno la rivista Mademoiselle chiamò quella brillante studentessa di Berkley per proseguire la collaborazione che lei in seguito avrebbe mantenuto saltuariamente, mentre lavorava a Vogue. Il resto ormai è storia.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La storia della rivista Mademoiselle che scoprì talenti letterari: da Capote a Didion
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