La poetessa russa Marina Cvetaeva nacque a Mosca l’8 ottobre 1892 da una donna che avrebbe voluto solo figli maschi e che aveva dovuto rinunciare, dopo molto sacrifici, a una promettente carriera di pianista. Non fu felice Marija Alexandrovna Mejn di dare alla luce una bambina, nella quale già vedeva riflesso un avvenire di soprusi e privazioni. Lei stessa aveva dovuto rinunciare al pianoforte e sposare un uomo che, dopotutto, non amava: Ivan Vladimirovič Cvetaev, eminente professore di Belle Arti all’università di Mosca. In segno di ribellione Marija aveva già scelto il nome per i suoi figli maschi; e invece ora il destino la ripagava ancora una volta con questa sciagura. Poco dopo avrebbe messo al mondo un’altra bambina, Anastasja; la seconda delusione.
Nel frattempo la piccola Marina cresceva in un ambiente carico di stimoli e sollecitazioni creative, come i libri di Puškin. Era incantata dalle passioni della madre artista che la educò alla musica e alla letteratura. Marija sognava per la figlia una carriera da pianista - immaginando che potesse realizzare il suo sogno tradito - ma la vocazione di Marina non era per le note su uno spartito, era per le parole. Marina Cvetaeva scrisse la sua prima poesia a soli sei anni, rivelando un talento precoce. Scriveva prevalentemente in russo, ma anche in tedesco e francese.
Sarà poi la morte prematura della madre, scomparsa nel 1906 a causa della tubercolosi, ad accendere in lei la vocazione che dichiarò quasi come una forma di resa: “Non mi restava che divenire poeta”, scrisse nei suoi diari. Marija Alexandrovna non aveva avuto i figli maschi che avrebbero desiderato; ma quella figlia femmina così fuori dal comune, anticonformista e rivoltosa, di certo superava tutte le sue aspettative, perché Marina - era chiaro - non si sarebbe mai rassegnata come lei a un destino di passiva sottomissione.
Marina Cvetaeva: la vocazione incendiaria di una poetessa
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Marina Cvetaeva aveva un’indole vulcanica, in continua ebollizione. Planava sulle cose con l’impeto di un uragano. Tutto ciò che toccava lo amava di un amore unico, esclusivo, tenace, non certo incline a compromessi. Forse per questo sapeva scrivere di tutto e in qualsiasi lingua, ma nei suoi scritti diede sempre la precedenza all’amore, che concepiva nella sua accezione più travolgente e incendiaria.
A soli diciotto anni l’ardente Marina diede alle stampe la sua prima raccolta poetica, Album serale. Un anno dopo, sulle rive del Mar Nero, conobbe l’editore Sergej Jakovlevič Efron, colui che sarebbe diventato suo marito. Fu un grande amore, non privo di complicazioni e contraddizioni, come tutti gli amori di Marina Cvetaeva. Lei, del resto, non era fatta per essere fedele. Il rapporto con Sergej era basato su una fedeltà cieca - “ti seguirò come un cagnolino” gli scriveva lei - ma costantemente tradita. Marina si innamorò di uomini e donne, ma alla fine tornava sempre da Sergej. Una delle sue relazioni più famose è quella con l’attrice Sof’ja -Sonecka Gollidej, cui dedicò il suo unico romanzo Sonecka (1937), riedito nel 2019 da Adelphi con la curatela di Serena Vitale. Il libro fu definito un “inno all’amore e alla poesia” e rispecchiava appieno l’ispirazione tumultuosa di Marina, che nasceva sempre da dentro, da un sentimento travolgente e inoppugnabile.
Sonecka fu definito in seguito un racconto-epitaffio, che già racchiudeva il presentimento della fine. Fu scritto nel 1937, un anno in cui già si addensava come una nube incombente il presagio oscuro della guerra e della morte. Marina se n’era andata dalla Russia e aveva già perso tutto. Aveva visto la propria splendida casa saccheggiata, in seguito alla Rivoluzione del 1917; conosciuto la fame e la miseria ed era stata costretta a scelte indicibili, come quella di affidare la propria seconda figlia, Irina, a un orfanatrofio perché lei non poteva nutrirla. Lo sforzo di salvarla attraverso la separazione non valse a nulla, la piccola sarebbe morta a soli due anni.
Recensione del libro
Sonečka
di Marina Cvetaeva
Nel frattempo Marina Cvetaeva era diventata la poetessa della Russia post-rivoluzionaria: leggeva in pubblico i suoi versi, che parlavano di amore e quotidianità, ma spesso celavano un sottotesto politico, come in Dopo la Russia, Il poema della montagna e Il poema della fine. La censura di Stalin era ancora lontana; ma, nonostante il successo letterario, Marina soffriva la privazione della povertà, la sofferenza della separazione e il morso della fame.
Marina Cvetaeva: dall’esilio al ritorno in Russia
Dopo il 1917 iniziò, per Marina, una vita nomade. Il marito Sergej si era arruolato nell’Armata bianca e lei cominciò a vagare, come una zingara, per l’Europa, mentre la guerra la inseguiva passo passo come uno spettro inevitabile. Si stabilì per un certo periodo a Parigi, poi a Praga dove, nel 1922, ritrovò Sergej. Quell’anno nacque il loro terzo figlio, Georgij detto Mur, che Marina - dopo la perdita di Irina, che non si sarebbe mai perdonata - amò di un amore indicibile, soffocante.
La famiglia si trasferì in seguito nella capitale francese e fu il periodo più prolifico per la produzione letteraria di Cvetaeva. A Parigi lavorava come domestica, ma finalmente poteva scrivere. Si trovava inoltre a suo agio nella comunità esule, intellettuale e cosmopolita che si era installata nella Ville Lumière, dove all’epoca erano presenti tanti rifugiati russi. In quegli anni conobbe il poeta russo Boris Pasternak, con cui intrattenne un intenso e appassionato scambio epistolare; Pasternak riconobbe in Marina la sua stessa intensità.
Ma la calma ritrovata non era destinata a durare. Sergej, che nel frattempo lavorava per i servizi segreti russi, fu arrestato e deportato in un gulag. La stessa sorte toccò alla figlia Arjadna che fu incarcerata nei pressi di Mosca. Marina riuscì a tornare in Russia soltanto due anni dopo, con il figlio Mur, nella speranza di ricongiungersi alla famiglia. Iniziò un periodo terribile di povertà ed isolamento, sino all’inevitabile epilogo del 31 agosto 1941.
La misteriosa morte della poetessa Marina Cvetaeva
Il 31 agosto 1941 era una domenica. In quella giornata innocua di sole e di festa Marina Cvetaeva, la grande poetessa russa, giunse al culmine della sua disperazione. Pochi giorni prima le truppe tedesche di Hitler avevano invaso la Russia e - questo Marina ancora non poteva saperlo - suo marito Sergej Efron, condannato ai lavori forzati, era stato fucilato. La figlia Arjadna invece si trovava da anni in carcere, Marina non sapeva se l’avrebbe mai rivista.
Portando con sé l’unico figlio che le era rimasto, l’adolescente Georgij detto “Mur”, Cvetaeva decise di affittare un’isba (una tipica casetta della Russia rurale) e di partire in treno per la località di Elabuga, nel Tatarstan.
In una pagina di diario, datata poco tempo prima, la poetessa scriveva:
Già da un anno cerco con gli occhi un gancio...già da un anno prendo le misure della morte.
In quel luogo sperduto, lontano da Mosca, Marina Cvetaeva compì il gesto fatale. Salì su una sedia, assicurò per bene la corda a una trave e si impiccò. Morì a soli quarantanove anni.
Nelle tasche della sua veste in seguito furono ritrovate tre lettere; una era destinata al figlio Mur. Rivolgendosi al figlio Cvetaeva implorava perdono e si giustificava affermando “ero in un vicolo cieco”.
Sulla morte di Cvetaeva ancora oggi si addensano numerose ombre; c’è chi afferma che la poetessa fu indotta al suicidio dagli agenti dell’NKVD che la ricattarono imponendole di scegliere tra la sua morte e quella dei suoi figli.
Le pagine di diario del figlio Mur, che purtroppo sarebbe morto pochi anni dopo, testimoniano questa versione dei fatti: affermava che la madre era stata indotta al suicidio per il suo rifiuto di collaborare con gli agenti.
Non sapremo mai la verità. L’unica certezza è che Marina Cvetaeva, la maggiore poetessa russa insieme a Anna Achmatova, viveva in una condizione di quasi totale indigenza. Negli ultimi mesi era giunta persino a implorare un lavoro presso il Fondo Sovietico per la Letteratura: si era offerta di fare la lavapiatti nella mensa dell’associazione. Ma non ottenne il posto; per quella richiesta - dettata da un’esigenza estrema - fu persino un poco derisa. Ora riposa in una fossa comune in una località imprecisata nei pressi di Elabuga.
L’epitaffio poetico di Marina Cvetaeva
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Marina Cvetaeva non fu colta di sorpresa dalla morte. Aveva scritto il proprio epitaffio a soli vent’anni, in una poesia destinata a un passante. In quei versi immaginava di essere sepolta sottoterra e che un uomo sconosciuto posasse gli occhi distrattamente sulla sua tomba leggendo le date di nascita e di morte.
Leggi – di ranuncoli
e di papaveri colto un mazzetto
– che io mi chiamavo Marina
e quanti anni avevo.
In questi versi malinconici la poetessa russa ricorda che le piaceva ridere, soprattutto “quando non si può”. E rammentava la pienezza della vita che si esprimeva nei suoi riccioli e nelle sue belle guance imporporate. Nella terza strofa un verso irrompe quasi come un grido: “Anch’io esistevo, passante!”, pare destinato a tutti noi che ora leggiamo e sappiamo - purtroppo con certezza - la sua data di morte, che all’epoca la poetessa, ancora nel pieno del suo slancio vitale, non poteva prevedere.
Aveva inviato quella poesia a un conoscente, nel marzo del 1914, come conclusione di una lettera in cui affermava di non credere in Dio e neanche nell’esistenza ultraterrena. Per lei esisteva solo la vita, diceva, e una “febbrile, delirante sete di vivere” . Parole che ora suonano in stridente contraddizione con la sua ultima lettera e gettano un presagio oscuro sulla sua morte.
Nel finale di quella poesia, scritta da ragazza, Marina Cvetaeva scriveva:
Con leggerezza pensami, con leggerezza dimenticami
Versi dolci e malinconici che oggi leggiamo sentendoci invasi da un’indicibile tenerezza, come se provenissero dall’aldilà; il congedo letterario di Marina dalla sua triste - ma rivoluzionaria - esistenza.
Recensione del libro
Deserti luoghi. Lettere (1925-1941)
di Marina Cvetaeva
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Marina Cvetaeva: vita e opere di una poetessa russa rivoluzionaria
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