Il 5 febbraio 1944 Leone Ginzburg moriva nel carcere romano di Regina Coeli, ucciso dalle percosse subite dai fascisti che lo torturano per la sola colpa di essere ebreo. Quest’uomo “coltissimo, intelligentissimo che traduce dal russo e fa bellissime traduzioni” se ne andava da leale combattente, sempre fermo nelle sue solide convinzioni, lasciando in eredità alla moglie quel cognome pesante, di origini russe: “Ginzburg”, che lei avrebbe tenuto stretto facendolo proprio, apponendolo come firma a ogni suo scritto.
Il debito commosso di Natalia Ginzburg a suo marito, Leone, è tutto condensato nella straziante poesia Memoria (1944) che cattura, come un’istantanea, la reazione alla notizia terribile della morte di lui: una poesia di presenza-assenza, di solitudine, impregnata di dolore e di verità.
Natalia Ginzburg e il ricordo di Leone
Natalia era arrivata a Roma con Leone e i tre figli piccoli poco tempo prima, dopo il lungo confino in Abruzzo. La famigliola si era stabilita nei pressi di Piazza Bologna: venti giorni dopo il loro arrivo il marito fu arrestato e lei non lo avrebbe rivisto “mai più”, come scrive nel suo capolavoro Lessico famigliare (1963):
Arrivata a Roma, tirai il fiato e credetti che sarebbe cominciato per noi un tempo felice. Non avevo molti elementi per crederlo, ma lo credetti. (...) Leone dirigeva un giornale clandestino ed era sempre fuori di casa. Lo arrestarono, venti giorno dopo il nostro arrivo; e non lo rividi mai più.
Nella gravità di quel “mai più” troviamo l’origine di una vocazione letteraria. Natalia, ancora giovanissima, si ritrovò così completamente sola in una città sconosciuta, con i bambini a cui badare e una vita intera da reinventare. Non sapeva che fare, non aveva idea delle sue capacità, ma di una cosa era certa: avrebbe onorato Leone, avrebbe tenuto fede alle sue parole. Nella sua ultima lettera il marito le aveva scritto:
La mia aspirazione è che tu normalizzi la tua esistenza (...) che tu lavori e scriva e sia utile agli altri.
Quelle parole, che rilette oggi appaiono come un lascito testamentario, furono la forza della vita di Natalia Ginzburg, ciò che la aiutò a risalire dall’abisso e a realizzare sé stessa. Nel finale della lettera Leone elargiva alla moglie un consiglio prezioso, che risuona come una profezia della carriera della Ginzburg scrittrice:
Attraverso la creazione artistica ti libererai delle troppe lacrime che ti fanno groppo dentro.
Ed è quello che Natalia fece: scrivere per liberarsi del dolore, scrivere per affrontare la morte faccia a faccia in un battaglia cieca senza vincitori né vinti, scrivere per trasformare le lacrime in parole e così, forse, dar loro un senso. Da questa spinta creativa, generata dal dolore, nacque prima di tutto una poesia: sgorgava direttamente dall’anima, come un grido volto a squarciare le tenebre.
Il titolo della poesia stessa “Memoria” sembra anticipare, in chiave lirica, un tema fondamentale per la Ginzburg scrittrice. La lirica fu pubblicata nel mese di dicembre 1944 sulla rivista Mercurio e rappresentava l’esordio di una nuova voce sul panorama letterario italiano: ma per Natalia si trattava, prima di tutto, di una cura e di un dono restituito a chi gliene aveva elargito uno molto più grande, per poi andarsene per sempre, senza attendere ricompensa.
Memoria è una poesia invernale, che deve essere letta in una città svuotata dal gelo e bagnata dalle lacrime della pioggia. L’immagine della città ha un ruolo centrale nella lirica perché restituisce l’atroce solitudine provata dall’autrice.
Quanti volti può avere la memoria? In questi versi Natalia Ginzburg ne sceglie uno sopra tutti: quello del marito scomparso, il volto amato di Leone, l’ultima volta che lo aveva visto.
Scopriamone testo, analisi e commento.
Memoria di Natalia Ginzburg: testo
Gli uomini vanno e vengono per le strade della città.
Comprano cibo e giornali, muovono a imprese diverse.
Hanno roseo il viso, le labbra vivide e piene.
Sollevasti il lenzuolo per guardare il suo viso,
ti chinasti a baciarlo con un gesto consueto.
Ma era l’ultima volta. Era il viso consueto,
solo un poco più stanco. E il vestito era quello di sempre.
E le scarpe eran quelle di sempre. E le mani erano quelle
che spezzavano il pane e versavano il vino.
Oggi ancora nel tempo che passa sollevi il lenzuolo
a guardare il suo viso per l’ultima volta.
Se cammini per strada, nessuno ti è accanto,
se hai paura, nessuno ti prende la mano.
E non è tua la strada, non è tua la città.
Non è tua la città illuminata: la città illuminata è degli altri,
degli uomini che vanno e vengono comprando cibi e giornali.
Puoi affacciarti un poco alla quieta finestra,
e guardare in silenzio il giardino nel buio.
Allora quando piangevi c’era la sua voce serena;
e allora quando ridevi c’era il suo riso sommesso.
Ma il cancello che a sera s’apriva resterà chiuso per sempre;
e deserta è la tua giovinezza, spento il fuoco, vuota la casa.
Memoria di Natalia Ginzburg: analisi
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In Memoria Natalia Ginzburg si rivolge a un “tu” indefinito: ma quel “tu” non è altro che lei stessa, o meglio una versione remota di sé stessa, lasciata al passato. Come se si spogliasse del peso del ricordo e lo affidasse a un altra persona, con tutto il carico di rimpianto e nostalgia che esso comporta, forse un fardello troppo gravoso da sopportare e da esprimere attraverso l’uso della prima persona singolare. Del resto, non lo diceva anche Montale in Cigola la carrucola del pozzo (1925)? Guardando l’immagine ridente che affiora dal secchio immerso nel pozzo il poeta scopre che “il passato appartiene a un altro”; forse per questo motivo Natalia Ginzburg decide di affidare il proprio doloroso passato a un “tu” indefinito e non a un “io” definito, radicato nella contingenza del presente.
Prima di introdurre il “tu”, però Natalia descrive una scena urbana di ordinaria quotidianità: gli uomini vanno e vengono, comprano i giornali, affollano le strade cittadine nell’agitazione frenetica del primo mattino. Sono uomini vivi, dalle labbra rosee e carnose, che trasudano vitalità ed energia alla quale l’autrice contrappone l’amara verità della morte. Fissando quella frenesia insensata che si affolla intorno a lei Natalia sembra precipitare più a fondo nella propria solitudine, una sola immagine le si affaccia alla memoria interponendosi come uno schermo tra lei e il mondo: il volto di Leone l’ultima volta che lo vide, steso su un lettino metallico nel silenzio dell’obitorio. Il volto di Leone Ginzburg, l’ultima volta che lo vide: morto. Inizia così lo slittamento tra passato e presente che costituisce il ritmo invisibile della poesia: i piani temporali si alternano e si sovrappongono descrivendo così quel peculiare sortilegio operato dalla memoria, ovvero la capacità di portare il passato nel presente, di rendere vivo un attimo passato. Una cosa, però, non è più la stessa in questo scarto temporale: la presenza cara, amata, del marito si è trasformata in assenza. Ed è proprio il peso di questa assenza, la sua tragica irrimediabilità, a fare da sfondo dell’intera poesia.
Natalia Ginzburg ricorda l’ultimo saluto a Leone con una consuetudine tragica: tutto sembra uguale, eppure è diverso. Le scarpe sono quelle di sempre, il viso pure sembra essere immutato, ma su tutto si stende la verità oscura della morte.
A segnare la differenza tra il prima e il dopo è una proposizione avversativa che sembra spezzare in due la poesia, ammantando il componimento di un significato diverso e di un nuovo ritmo:
Ma era l’ultima volta.
Il ricordo di Leone è quotidiano, usurato dalla familiarità delle azioni e delle circostanze. Il marito rivive come nell’immagine cristologica dell’ultima cena: le sue mani “spezzavano pane e versavano vino”. Sembra compiere un sacrificio, come se fosse consapevole del suo destino, della crocifissione che lo attende.
Poi bruscamente si torna al tempo presente che tuttavia appare ancorato al passato dal filo labile di questa immagine, capace di tornare alla mente in un giorno qualunque, nel mezzo della strada affollata dal viavai cittadino.
Natalia Ginzburg rivede sé stessa, rapita dal ricordo, e dice: “non è tua la città”, poiché la memoria del dolore e della morte si frappone come uno scudo tra lei e quegli uomini indaffarati. La città illuminata appartiene agli altri, alla volgarità ottusa degli scambi quotidiani: lei invece vive nel dolore dell’assenza che ha scavato nel suo petto il solco lacerante della solitudine in cui riecheggia il suono perduto d’una risata senza eco.
Nel finale l’immagine del “cancello chiuso” rappresenta, sotto forma di metafora, il passato cui è impossibile accedere.
Memoria di Natalia Ginzburg: commento
La memoria dona rapidi zampilli, che per un attimo annegano la mente, ma nulla più: è un inganno, il rapimento di un istante, poi davanti agli occhi torna il presente con la sua immediatezza che richiama all’urgenza di vivere. Natalia relega la propria giovinezza al passato, la lascia chiusa oltre il cancello, perché dopo la morte del marito per lei il tempo dell’amore e della gioia è finito per sempre.
Negli ultimi versi ripete come una litania una serie di aggettivi “chiuso”, “deserto”, “freddo” e infine “vuota”, che sembrano farsi specchio riflesso dell’assenza scavata dalla morte. Il conforto del focolare domestico è spento, la memoria è una casa buia, dalle stanze vuote nelle quali si infiltrano spifferi gelati.
La perdita della persona amata è tutta condensata in quell’unica frase finale, che appare come una personificazione:
La casa è vuota.
La casa sottintende la presenza di Leone, perché in fondo l’amore presuppone che la “casa”, il luogo del rifugio e degli affetti, sia rappresentata dalla persona amata. Quindi nell’immagine della “casa vuota” Ginzburg traduce la visione sconsolata della propria solitudine.
Quell’aggettivo “vuota” risuona con la stessa freddezza metallica nella famosa poesia di Primo Levi, Se questo è un uomo:
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
Il contesto è completamente diverso, Primo Levi sta parlando di una donna in un campo di concentramento e non di Natalia che invece vive e si muove libera per le strade di Roma. Ma il filo conduttore, a ben vedere è lo stesso, anche se la parola “memoria” nella celeberrima poesia di Primo Levi non è nominata, solo accennata nell’imperativo conclusivo: “Meditate”.
Il cognome da nubile di Natalia Ginzburg era Levi, come quello di Primo, ed entrambi appaiono uniti da un comune dolore: un dolore innominabile, mai redento, che cerca nella letteratura un forma di espressione perché l’anima è ormai lacerata e non riesce più a contenerlo. Forse è per questo motivo che possiamo intravedere nella donna “che non ha più forza di ricordare” un riflesso di Natalia che vaga smarrita per le strade di una Roma indaffarata e caotica, cercando di riallinearsi al ritmo estraneo della vita, consapevole che ormai una frattura si è creata per sempre tra lei e il mondo. Perché è vero, la memoria ci restituisce un frammento di ciò che abbiamo perduto, ma è un inganno effimero, come un riflesso sull’acqua: non è una restituzione vera del passato, ne trattiene sempre una parte.
Quella frattura è rappresentata dalla Memoria evocata nel titolo della poesia: uno strappo netto capace di spezzare i bordi delle cose, creare crepe, allargare distanze sino a renderle incolmabili. Uno strappo invisibile nella trama ordinaria della vita che, forse, solo la letteratura può ricucire.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Memoria” di Natalia Ginzburg: la poesia dedicata al ricordo del marito Leone
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