Mia è la vendetta
- Autore: Eka Kurniawan
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Marsilio
- Anno di pubblicazione: 2019
«Solo quelli che non riescono a farselo rizzare combattono senza paura di morire» disse una volta Iwan Angsa parlando di Ajo Kawir. Era tra i pochi a sapere che il cazzo di Ajo Kawir non si rizzava mai. Lui gliel’aveva visto, annidato come un pulcino appena sbucato dall’uovo tutto rattrappito, con l’aria magra e intirizzita...
Il folgorante incipit di Mia è la vendetta (Marsilio, 2019 traduzione di M. Rossari), il romanzo dell’indonesiano Eka Kurniawan autore di romanzi, racconti, saggi, sceneggiature di film e graphic novel, permette di rompere ogni indugio e superare l’eventuale imbarazzo che un argomento del genere, trattato in modo così esplicito, potrebbe suscitare. Se questo accade, dura giusto un attimo: il grosso – o piccolo – disturbo di Ajo Kawir lo accompagnerà per tutto il romanzo – così come l’iniziale e molto comune immagine del membro maschile paragonato ad un uccello –, ma in modo così naturale che l’unica domanda che rimane fino alla fine è: il protagonista riuscirà mai a superare il suo problema di impotenza?
Tutto cominciò molti anni prima, molto prima che Ajo Kawir si trasferisse a Giacarta e diventasse un camionista e conoscesse una donna chiamata Jelita. Successe quando avevano dodici o tredici anni, insomma più o meno quell’età. Questo tipo di dettagli diventa sempre più vago con il passare del tempo, ma ogni minima cosa accaduta in quella serata era rimasta per loro un ricordo cristallino.
Come tutti gli adolescenti, Ajo Kawir è ossessionato dal sesso. Una sera, il suo migliore amico Gecko lo convince a seguirlo nel suo “posticino segreto” da dove possono spiare da un buco nel muro Rossetto Rosso, una donna che vive isolata da tutto e da tutti, impazzita dopo aver visto morire il marito, crivellato sotto i suoi occhi dai colpi di un gruppo di soldati.
Quella notte, però, due poliziotti arrivano in moto ed entrano nella casa. Per i ragazzi, all’inizio, vedere la donna spinta in bagno e lavata da uno dei due, è solo una scena bizzarra, ma quando l’uomo tenta di violentarla, succede qualcosa. Ajo Kawir perde la presa sul davanzale e cade all’indietro, allarmando con il suo tonfo i poliziotti. Mentre Gecko riesce a fuggire, l’amico si ritrova accanto a Rossetto Rosso con la canna di una pistola puntata alla testa e una domanda che suona più come una minaccia: «Vuoi provare?».
La cosa buona fu che lo lasciarono subito andare e gli ordinarono di sparire. Quella brutta fu che, da quel giorno in poi, il cazzo di Ajo Kawir non si rizzò più.
A nulla servono i maldestri tentativi di rianimare l’uccello che crede di essere “un orso polare in letargo”, come massaggi al peperoncino o al dentifricio, punture di api, prostitute… Solo attraverso la violenza delle risse il giovane riesce sfogare la frustrazione: diventa bravo a cacciarsi nei guai e non gliene frega nulla se questo vuole dire prenderle di brutto a fine serata. Gecko, che si sente terribilmente in colpa, non può fare a meno di dargli una mano, finendo spesso pure lui malconcio.
A diciannove anni conosce una ragazza, Jteung, la guardia del corpo di un vecchio che Ajo Kawir intende uccidere e, dopo una memorabile scazzottata, i due si innamorano.
Certo, il loro lavoro e l’impotenza interferiscono non poco con la storia d’amore: il giovane viene assoldato da un certo “zio Bunny” per uccidere un noto malvivente conosciuto solo come la Tigre, mentre Iteung lavora per i membri di una banda criminale, la Mano Vuota.
Nonostante l’impossibilità di essere amanti, i due si sposano, ma quando, qualche mese dopo, la ragazza confessa di essere incinta, il loro rapporto sembra essere definitivamente compromesso.
Ritroviamo Ajo Kawir dopo dieci anni, il lungo periodo trascorso in carcere per i crimini commessi. Sul suo camion – il titolo del libro è dipinto a spruzzo sulla sua cabina –, aiutato come kenek da un ragazzo, Momo lo Sdentato, percorre le strade di Giacarta. Nonostante i camionisti abbiano un modo tutto loro per risolvere i problemi che si presentano nel loro ambiente – ovvero combattendo all’ultimo sangue –, sembra che ogni pulsione violenta di Ajo Kawir sia stata sostituita dalla consapevolezza di chi accetta se stesso e i propri limiti: la saggezza ha portato anche alla pace dei sensi.
«Ho cominciato a capire cosa vogliono le mie parti intime.»
«Che dice il tuo uccello?»
«Sta scegliendo la strada della tranquillità. Come un maestro sufi. Come un guru. L’uccello ha imboccato il sentiero del silenzio e della solitudine. Dorme pacifico e tranquillo, e ho imparato molto da lui.»
«E che cosa hai imparato esattamente da questo uccello?»
«A vivere in silenzio e in solitudine, senza violenza, senza odio. Ho smesso completamente di fare a botte. Ho davvero fatto mio il suo messaggio.»
Ma non sempre le cose vanno come crediamo o come vorremmo:
Aveva creduto di poter trovare un po’ di serenità lungo la strada – una pace che gli sarebbe arrivata dalle ruote che giravano, dal paesaggio che scorreva a destra e a manca, dal sibilo dell’aria. Una pace che sarebbe salita dal ronzio del motore e delle gomme stridenti sull’asfalto. Si sbagliava, ovviamente. La strada non gli diede alcuna pace. E questo divenne ancora più evidente quando all’improvviso apparve quella Jelita, che lo spinse a borbottare rivolto al ragazzino: «Abbiamo un problema.»
Ajo Kawir non può fare a meno di pensare a ciò che si è lasciato alle spalle, ignaro però del fatto che qualcuno ha ancora qualche conto in sospeso da regolare.
Un libro sullo stupro che ha come protagonista un uomo impotente potrebbe sembrare a prima vista una contraddizione, ma la materia, trattata nei modi che caratterizzano la scrittura Eka Kurniawan e in un contesto in cui il membro maschile non è l’emblema essenziale della virilità né lo strumento di violenza sulla donna, diventa persino romantica e dà spazio alla forza, al desiderio e all’autorità femminile.
In Indonesia, dove la struttura della famiglia, come anche quella della società, è fortemente patriarcale, le scene di violenza sessuale non fanno parte solamente della tradizione letteraria, ma della realtà storica. C’è persino chi ha visto nell’impotenza di Ajo e nella sua reazione una metafora delle classi inferiori indonesiane.
Al di là delle possibili interpretazioni, è importante sottolineare l’originalità della scrittura, spassionata, concreta, senza inutili orpelli, ironica e ricca di situazioni grottesche. Fra queste, le molte scene di combattimento – da quella fra Ajo Kawir e Iteung, a quella fra Momo lo Sdentato e il suo nemico, lo Scarafaggio – possiedono tratti fumettistici, mai disgustosi o macabri.
Infine, dal punto di vista prettamente stilistico, Eka Kurniawan risulta essere un maestro nel frammentare la trama in sequenze, più o meno brevi, che vengono poi proposte alternando i diversi piani temporali.
Succede allora che un nuovo personaggio venga menzionato quasi per caso, prima sapere chi è e quale ruolo abbia nella vicenda. Oppure che solo nell’ultima parte di Mia è la vendetta veniamo a sapere che cosa è successo a Ajo Kawir in prigione, o quali dolorose esperienze giovanili hanno spinto Iteung a dedicarsi all’arte del combattimento.
Si tratta di una struttura narrativa non lineare, il cui ritmo riesce ad intrappolare il lettore, suscitando curiosità e aspettativa, oltre al bisogno di riflettere su ciò che sta leggendo.
Mia è la vendetta
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Mia è la vendetta
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