Esordiva nella narrativa nel 1941 con La strada che va in città, Natalia Ginzburg, una delle maggiori scrittrici del nostro Novecento. La sua prosa ci è familiare come la nostra stessa lingua, la sua schiettezza non conosce argini né limiti, la sua “vita immaginaria” non ha mai avuto confini, tant’è che ci parla ancora.
La strada che va in città, pubblicato con lo pseudonimo di Alessandra Torniparte, era un libro scritto di getto sull’onda della nostalgia per la città di Torino, per le sue strade e le sue colline, durante l’esilio vissuto con il marito Leone in Abruzzo.
Questa la sua nascita come autrice; mentre la nascita vera di Natalia risaliva al 14 luglio 1916, a Palermo, quando risuonava il primo vagito di una bambina in casa Levi. Era lei, Natalia, figlia di Giuseppe Levi, scienziato e matematico triestino di origini ebree, e di Lidia Tanzi. Sarebbe entrata nella storia della letteratura con il cognome, di origini russe, di suo marito: “Ginzburg”. La sua infanzia e la sua giovinezza però sarebbero rimaste per sempre legate a un’altra città, scolpita nella sua memoria ed eternata attraverso la sua narrativa, l’onirica e sfuggente Torino.
L’altra città è invece Roma, dove Natalia Ginzburg morì il 7 ottobre 1991, dopo una vita dedicata interamente alla scrittura, sempre in bilico tra reale e immaginario, ma con un’intenzione seria, mai deviata, mai scostante, spesso volutamente controcorrente.
Natalia Ginzburg: la vita
Natalia nacque in una famiglia borghese, fortemente antifascista. Durante la sua infanzia il padre e i fratelli furono imprigionati dal regime con l’accusa di praticare attività sovversive. Lei crebbe come un’emarginata: il fatto di essere ebrea e di essere antifascista non la aiutavano certo a socializzare, inoltre ricevette per tutta l’infanzia un’istruzione privata. Si affacciò per la prima volta alla vita pubblica durante gli anni del Liceo, il Vittorio Alfieri di Torino. In questi anni pubblicava i suoi primi racconti, tra i quali ricordiamo Un’assenza, la sua “prima cosa seria”.
Dopo aver abbandonato la facoltà di Letteratura si gettò a capofitto nella scrittura di racconti, collaborando anche con la rivista Solaria, e si dedicò alla traduzione di Proust. Aveva vent’anni e già vissuto mille vite.
Nel 1938 sposa Leone Ginzburg, grande letterato e antifascista di origini russe.
Con lui patisce la pena dell’esilio, in Abruzzo, per sfuggire alle persecuzioni del regime; tra quelle colline, così distanti dalla geometria architettonica torinese, Natalia scoprirà la propria autentica vocazione di scrittrice portando a compimento il suo primo romanzo, firmato con uno pseudonimo.
Al termine dell’esilio Leone viene di nuovo arrestato e portato nel carcere di Regina Coeli; Natalia non sa che non rivedrà mai più il marito. A lui dedicherà una poesia struggente dal titolo Memoria.
Se cammini per strada, nessuno ti è accanto,
se hai paura, nessuno ti prende la mano.
E non è tua la strada, non è tua la città.
La morte di Leone Ginzburg, fu paradossalmente, la svolta nella vita di Natalia. Da quel momento tutto cambiò per lei. Dopo essersi sentita cedere la terra sotto i piedi, con i tre figli piccoli al seguito come una nidiata di anatroccoli, decise di fare ritorno a Torino - la città dove si sentiva protetta. Nel capoluogo piemontese iniziò la sua avventura presso la casa editrice Einaudi, di cui il marito Leone era stato uno dei fondatori, una delle menti pensanti alla base del progetto. Natalia prendeva il testimone della sua eredità, inconsapevole di forgiare così sé stessa.
Sotto le spoglie tragiche della vedova Ginzburg batteva la Ginzburg scrittrice, ticchettava sui tasti della macchina da scrivere, lentamente emergeva. Lavori di traduzione, di editing, di revisione: il lavoro in via Biancamano la tiene impegnata, ma non è mai troppo. Respira la stessa aria di Pavese, di Vittorini; un giovane Italo Calvino, lo scoiattolo della penna, più tardi, la guarderà con occhi pieni di ammirazione.
La morte di Leone accompagnava la fine della guerra e il tentativo di ricostruzione: il lutto di Natalia veniva a coincidere con questa esigenza di rinascita, così difficile e impervia, come scrive in Lessico famigliare.
E il tempo che seguì fu come il tempo che segue all’ubriachezza, e che è di nausea, di languore e di tedio; e tutti si sentirono, in un modo o nell’altro, ingannati e traditi.
Nel 1948 Cesare Pavese, che la chiamava “Nat”, decise di delegare a lei la sezione di narrativa contemporanea di Einaudi. Alcuni mesi dopo avrebbe iniziato a collaborare con la sede romana della casa editrice, tornando nella capitale. Così Ginzburg si sarebbe trovata, incredibilmente, a essere la scopritrice di un’altra grande scrittrice Elsa Morante. Era l’inizio di un’amicizia nata sotto il segno della letteratura.
L’esistenza di Natalia, sotto questo punto di vista, appare come un formidabile intreccio di vite e di destini.
La Natalia Ginzburg scrittrice
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Nel 1950 si sarebbe sposata di nuovo, con il professore di letteratura inglese Gabriele Baldini: la scrittrice Sandra Petrignani ricorda che sulla targhetta della porta di casa sua c’era scritto “Natalia Baldini” e pareva impossibile che lei, proprio lei, si nascondesse umilmente così dietro il cognome del marito.
Il periodo più vivace della sua produzione letteraria iniziò proprio tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta: scrisse Tutti i nostri ieri (1952), un romanzo che iniziò a darle una certa notorietà, seguito da Valentino, Le voci della sera e poi il capolavoro Lessico famigliare (1963) che le valse il Premio Strega.
Dopo la vittoria del Premio fu intervistata da una giovane Oriana Fallaci e, in quell’occasione, troviamo una delle sue più audaci dichiarazioni di stile: disse che voleva scrivere “come un uomo”. In questo possiamo rilevare una segreta comunanza di intenti tra le due autrici, anche se Fallaci all’epoca era ancora soltanto una giornalista.
Anche Ginzburg si sarebbe dedicata al giornalismo, scrivendo articoli di moda, critica e costume divenuti iconici sulle pagine del Corriere della Sera.
Nel 1969, dopo la morte del secondo marito, si sarebbe dedicata anche all’impegno politico sino a venire eletta deputata in Parlamento per il Partito comunista italiano. Seguono i suoi romanzi più maturi e nostalgici, come Caro Michele, La famiglia Manzoni, La città e la casa. Negli ultimi anni ancora la scrittrice corsara scrive combattiva sulle colonne de L’Unità. L’ispirazione non era mai finita, perché attraverso la scrittura Ginzburg esprimeva le sue idee e le sue idee vivevano del suo stesso respiro.
Continuava a discutere di letteratura, a stare in mezzo ai giovani, a incontrare gli esordienti, a non darsi pace: stava sempre accanto a “qualcosa che cresce”, perché aveva capito che era l’unico modo per vivere. Lei, che era nata in via Libertà 101, a quella Libertà non avrebbe mai rinunciato: è con questo ardore che i corsari, naviganti dei mari, levano alte le vele nel loro viaggio verso lo sconfinato ignoto. L’immaginazione era l’ignoto attraverso cui Ginzburg navigava senza mai perdere la rotta.
Nelle immagini che ce la restituiscono oggi Natalia Ginzburg splende sempre nell’età forte dei suoi trent’anni: iconica la foto che le ha scattato Oreste Molina di Einaudi che la coglie mentre sorride, i denti bianchi in un bagliore feroce intonato alla camicetta, sembra sempre pronta ad afferrare la vita e a osservare il mondo con quegli occhi scuri, “pungenti e femminili”.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Natalia Ginzburg: la vita e le opere della scrittrice corsara
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