Ne uccise più la fame
- Autore: Francesco Jori
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2014
Neanche le briciole: novembre 1917-1918 l’anno della fame per i civili del Triveneto
C’è una lapide a Palazzo Piva, Valdobbiadene (TV). L’incisione laconica riguarda la guerra 1915-18: 214 soldati caduti, 51 cittadini uccisi dai proiettili, 484 cittadini morti per fame. Ha ragione Francesco Jori, “Ne uccise più la fame”, come si legge nel titolo del suo volume che riflette e fa riflettere su una prospettiva eccentrica rispetto al fronte e alle armate, ma pur sempre legata al vissuto della Grande Guerra. Il saggio, basato su materiali poveri, diari, lettere e testimonianze della gente, è pubblicato dalle edizioni Biblioteca dell’Immagine di Pordenone (254 pagine 14 euro).
Se si aggiungono i 129 periti durante l’esodo da profughi in altre parti d’Italia, sugli allora 8800 abitanti, e si considera che il dato può essere esteso a tutti i paesi del Triveneto, ci si rende conto che ancora più delle armi potè la mancanza di cibo nei confronti dei civili. Una strage di donne, vecchi e bambini, uccisi dalla miseria provocata dalla guerra, che non aveva lasciato neanche le briciole per nutrirsi.
In occasione del centenario, il giornalista padovano rivisita il primo conflitto mondiale sotto una chiave di lettura non convenzionale, parallela alle operazioni belliche ma indipendente e centrata sulle condizioni della gente comune, nel territorio triveneto che costituì l’area pressoché esclusiva d’impatto degli scontri e che dopo Caporetto si trovò tagliato in due dalla nuova linea Piave-Montello-Grappa.
La ritirata dall’Isonzo dell’ottobre 1917 scatenò i Cavalieri dell’Apocalisse. Gli scampati ricordarono l’ultimo anno di guerra come l’an de la fan. Si calcola in 10mila anime la popolazione spenta dalla fame. Il raccolto era stato consumato in appena due mesi, bestiame e derrate rubati o rastrellati dagli austro tedeschi. Né si potè coltivare, non foss’altro per mancanza di sementi.
Le testimonianze sono tante e concordi. Suor Elettra, da un paesino vicino Vittorio Veneto: sei mesi che si vive senza poter provvedere nulla, perché botteghe non ne esistono più. Cosa mancava? Pane, polenta, olio, lardo, burro, medici e medicine. Se non vengono a liberarci in fretta la nostra sorte è segnata: morire di inedia. Fino a molti anni più tardi, chi aveva conosciuto privazioni sgriderà figli e nipoti schizzinosi. Matteo, di Quero (qua la più parte sono morti di fame) all’epoca era un ragazzino: quando vedo buttare via un pezzo di pane mi sento male.
Per i civili, oltre agli stenti, anche nelle città più distanti dal fronte la paura scendeva dal cielo. Notte di luna notte di bombe, perché la visibilità aiutava gli aerei nemici, ma la precisione lasciava a desiderare e i bersagli militari mancati diventavano abitazioni centrate. Padova divenne una specie di capitale di guerra, specie dopo il trasferimento in città del Comando Supremo di Diaz, con l’incubo dei bombardamenti che si può immaginare per gli abitanti, bambini compresi.
E il profugato? Altra sventura. Interi paesi sfollati dalla zona di guerra, territori spopolati. I Trentini, sudditi austriaci, finirono nelle città di legno allestite all’interno dell’Impero, all’offensiva italiana su Rovereto. I Veneti, a causa dell’avanzata austriaca, sciamarono in Italia. 600mila profughi, decine di migliaia di famiglie, villaggi completi, col parroco in testa.
Gli abitanti di Possagno finirono addirittura in Sicilia, fatti evacuare dai Carabinieri con la forza. Marsala era un altro mondo, che gli schivi montanari non comprendevano. Altre tradizioni, altri costumi, altre superstizioni, difficoltà di capire e farsi capire, come se non si fosse tra italiani. Tranne lodevoli eccezioni, le diversità non consentirono di stabilire buoni rapporti e chi ne fece le spese furono i profughi, abbandonati a loro stessi dalle istituzioni assenti, ostacolati da quel difetto tutto italiano che è la burocrazia, penalizzati dalla corruzione e voracità di amministratori disinvolti.
E al ritorno, non mancarono i contrasti coi civili rimasti ad affrontare i disagi in loco. Una guerra tra poveri, non meno devastante nel corpo e nello spirito.
Ne uccise più la fame
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