Note sul suicidio
- Autore: Simon Critchley
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2022
È un libro che scotta. Qualcuno potrebbe dirlo addirittura urticante. Note sul suicidio di Simon Critchley (Carbonio 2022, trad. A. Cristofori) ci pone di fronte a un rimosso sociale, quello relativo alla libertà di scegliere la propria morte. Pensiamoci bene: liberato dai connotati farisaici di “gesto disperato”, l’atto suicidario potrebbe connotarsi invece come atto rivendicativo. È sulla scorta di quest’ultima scomodità pedagogica che i suicidi sono e saranno sempre invisi dal potere, emblemi al contempo di uno schiaffo sociale e del diritto alla più assoluta delle autonomie.
In altre parole (ritengo tutt’altro che peregrine): col decidere la propria fine, il suicida si sottrae alla perpetuazione ab libitum del controllo (di Dio, del Re, della malattia). In quanto atto liberatorio e sovversivo, il suicidio è per ciò punibile con la condanna e la stigmatizzazione sociale, persino post-mortem.
“I francesi avevano punizioni postume ancora più gravi per i suicidi. Nel 1670 Luigi XIV emanò una legge contro il suicidio in cui si decretava che il cadavere venisse trascinato per le strade a faccia in giù e poi impiccato o buttato in una discarica […] nello Stato di New York, anche se il suicidio non è considerato un reato, è ancora riconosciuto come “una grave offesa pubblica.” (pag. 55-56)
Anche per ciò che riguarda questa fattispecie, il saggio di Simon Critchley solleva un numero consistente di interrogativi: a chi appartiene in fin dei conti la nostra vita? A un qualche dio onnipotente? Ai capi di governo? Agli apparati preposti al governo degli esseri umani dalla culla alla bara? E, acclarato il pleonasmo delle domande, con che diritto lo Stato può intromettersi in ambiti tanto intimi come quelli che investono la sfera del sé e dell’esistere?
“Il tema del suicidio solleva immediatamente questa domanda: in virtù di cosa la vita è o non è significativa? Sembrerebbe che, se non possiamo rispondere alla domanda sul senso della vita, allora sarebbe prudente, forse addirittura necessario, lasciare la vita per…qualsiasi cosa: Dio o il vuoto o una miscela delle due cose. Se non troviamo una ragione per essere, forse allora è meglio non essere.” (127-128)
Ma questo saggio (in appendice annovera anche un testo di David Hume sull’argomento) non tradisce intenti nichilisti, acriticamente legittimanti il suicidio. Opera piuttosto in maniera equidistante, riflettendo sulle discendenze sociali e ontologiche del diritto inalienabile alla scelta, anche se e proprio in quanto definitiva. Critchley si serve degli strumenti lati della filosofia e della sociologia, sorretti, se possibile, da un corredo di frasi ultime di suicidi che hanno affidato a uno scritto qualcuno dei motivi del loro volontario uscire di scena. Non cito volutamente: al di fuori del contesto funzionale di un saggio controcorrente come questo, l’elenco degli autori (noti e sconosciuti) morti per mano propria assumerebbe i connotati di un pettegolezzo estraneo alle intenzioni lucidissime di Simon Critchley.
Preferisco chiudere con le parole politiche che Fabrizio De André ha scritto per il suicidio (a sua volta politico) di Luigi Tenco: “Signori benpensanti, spero non vi dispiaccia/ se in cielo, in mezzo ai santi/ Dio, fra le sue braccia/ soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte/ che all’odio e all’ignoranza preferirono la morte” (Preghiera in gennaio). I grassetti della citazione sono stati fermamente voluti dal sottoscritto.
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